Ecco a voi l’ultima parte del secondo capitolo che illustra la ricostruzione della situazione sociale e politica in Italia alla fine degli anni ’70, la cui conoscenza è essenziale per capire il contesto storico della futura “nascita Italiana” del fenomeno chiamato Punk.
Capitolo secondo (Parte terza)
Uno strano movimento di strani studenti
Il 1977 si apre con grande fermento soprattutto negli ambienti universitari dopo la proposta di legge del ministro democristiano Malfatti.
Questa prevedeva un aumento delle tasse universitarie, l’introduzione di due livelli di laurea, la suddivisione dei docenti in due ruoli distinti (ordinari e associati), un maggior controllo sui piani di studio, l’abolizione degli appelli mensili e il raggruppamento degli esami in due sessioni (estiva e autunnale).
L’occupazione degli atenei in molte città italiane, prime fra tutte Roma e Bologna, è immediata.
Subito si nota che le forze mobilitate non sono quelle classiche delle occupazioni universitarie; non si tratta di semplici studenti, ma per lo più di studenti – lavoratori, precari, marginali.
Si legge sul Corriere della Sera del 19 febbraio :
“Sulle mura del recinto ha scritto: “Non è il ’68, è il ’77, non abbiamo passato né futuro, la storia ci uccide”. All’arrivo del PCI e della CGIL si rivolta: “Via, via la nuova polizia”. Anche se non è un sottoproletario, è un emarginato semi – intellettuale dinanzi al collasso di quella conoscenza, che ha per materia prima la materia grigia. S’avanza uno strano studente.”[1]
Anche le scritte che compaiono nelle università, i fogli e le riviste mostrano subito i caratteri di novità di questo movimento che si allontana sia dal linguaggio e dai codici del vecchio movimento operaio sia da quelli dei precedenti movimenti studenteschi.
Si utilizza il nonsense, un uso del linguaggio più ironico, creativo e pungente che colpisce il bersaglio in modo sarcastico e graffiante.
Recita un tatzebao[2] affisso nell’università romana:
“Baroni, padroni, pompieri, aspiranti dirigenti / topi di sezione, oscuri burocrati, gente con la linea in tasca /Forse tra qualche giorno ce ne andremo / e proverete a dimenticare / tornando con: bacheche, circolari / processo democratico, giornali / registri, libri mastri, orpelli / specchietti, proposte in positivo / ma azioni costruttive, delegati e mozioni / (ma non rompete i coglioni) / Direte: era un fuoco di paglia / un’oscura marmaglia / senza proposizioni / (ma non rompete i coglioni) Ma tutto questo non è stato invano / noi non dimentichiamo…/ Per il vostro potere fondato sulla merda / per il vostro squallore odioso, sporco e brutto / Pagherete caro, pagherete tutto!”
Gli studenti che occupano sono per lo più non frequentanti legati in maniera marginale e saltuaria al mercato del lavoro e si caratterizzano per una situazione di precarietà in ogni ambito della loro vita.
“La precarietà si estende, infatti, all’intero arco della vita di queste masse giovanili. L’uso che si è fatto e si fa dell’iscrizione a scuola come espediente per essere mantenuti dalla famiglia, l’iscrizione all’università per rinviare il servizio militare,; la media dei voti all’esame per ottenere e conservare il pre – salario; il lavoro nei mesi di maggio e giugno per poter fare le vacanze, l’occupazione di un a casa o la coabitazione per sottrarsi alla vita familiare. Sono, tutti, altrettanti elementi di una condizione di precarietà che è, in qualche modo, anche scelta esistenziale e, per alcuni settori, rottura delle certezze, volontà di “destabilizzazione personale”, per altri un modo di vita che, imposto dai rapporti sociali complessivi, consiste tuttavia un livello minimo di sussistenza e una qualche autonomia di comportamenti”.[G. Lerner, L. Manconi, M. Sinibaldi; 1978; pag. 54-55]
All’inizio il PCI e il sindacato provano a controllare e strumentalizzare questo movimento, ma il loro tentativo fallisce miseramente e la spaccatura tra le due parti si fa sempre più profonda.
Il partito e le organizzazioni di sinistra assumono sempre più un atteggiamento ostile verso tutte le loro iniziative, fino a una chiara condanna, senza però arrivare a comprenderne le vere ragioni.
Nelle cronache dell’ ”Unità” di quei tempi emerge chiaramente questa intolleranza: gli occupanti vengono definiti come “provocatori”, “poche decine”, “cosiddetto movimento”.
Emblematico a riguardo è il trafiletto con il quale, nella cronaca di Roma, “l’Unità” del 6 febbraio dà la notizia dell’occupazione dell’intera città universitaria.
“Un’occupazione dell’ateneo è stata indetta ieri dal sedicente “comitato di lotta contro la restaurazione dell’università”. La decisione è stata presa al termine di un’assemblea profondamente divisa…Sulla scelta di occupare l’ateneo, i gruppi sono ripiegati – e questo dà il segno della debolezza dell’agitazione – dopo che nell’assemblea, segnata da forti spaccature, erano stati isolati appelli più estremisti ad “assaltare la città”…Mentre andiamo in macchina i cancelli sono chiusi: dentro gli occupanti si contano in due o tre decine.”[3]
La critica si fa sempre più aspra e violenta fino alla rottura definitiva nel febbraio del ’77, con la cacciata di Lama, il segretario della CGIL, dalla università romana.
Dopo l’occupazione della università la reazione del PCI e del sindacato è quella di cercare di prendere in mano l’organizzazione e la gestione dell’intero movimento.
Organizzano un comizio di Lama all’interno dell’ateneo, ma la reazione degli studenti occupanti è durissima e porterà a un violento scontro fisico tra i giovani e il servizio d’ordine organizzato dal partito.
L’incompatibilità tra l’ideologia del movimento e quella del partito è ormai evidente e ogni tentativo di dialogo sarà inutile; le due parti diverranno degli attori contrapposti negli eventi che caratterizzeranno la vita politica nazionale di quell’anno.
I giovani non si riconoscono più nell’ideologia di “sinistra” dei loro padri, non sono più disposti a fare sacrifici e aspettare: vogliono tutto e subito e non esitano ad usare ogni mezzo, anche violento, per ottenerlo.
Nel corso dell’anno i loro mezzi diventeranno sempre più duri dando vita a un susseguirsi di fatti di sangue in tutta la penisola.
Con le giornate di marzo il fossato scavatosi nel febbraio viene riempito, non solo metaforicamente, da una insormontabile barricata.
Durante una riunione di Comunione e liberazione nell’ateneo bolognese si presentano cinque studenti appartenenti al movimento, che vengono cacciati in malo modo dal servizio d’ordine.
Il movimento si mobilita e così pure la macchina repressiva. L’assassinio di Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta continua ad opera di un carabiniere provoca una risposta durissima da parte del movimento.
La notizia della morte di un compagno si diffonde rapidamente in tutto il paese dai microfoni di Radio Alice, la prima e più radicale radio libera di Bologna.
La zona vicino all’università viene assediata, si elevano delle barricate mentre un gruppetto distrugge la libreria di Comunione e liberazione, Terra promessa.
Nelle giornate successive la protesta e la rabbia scoppia in tutte le città italiane con estrema violenza, a cui la polizia e la magistratura risponde con altrettanta violenza.
In Aprile a Roma durante uno scontro armato in piazza, dopo il tentativo di riproporre il progetto di riforma Malfatti, rimane ucciso un giovane agente, Settimio Passamonti.
Sull’asfalto, vicino alla chiazza di sangue dell’agente, qualcuno nella notte scriverà: “Qui c’era un caramba, il compagno Lorusso è vendicato!”.
Il ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, vieta ogni manifestazione pubblica e dichiara: ” Sia chiaro che d’ora in avanti a chi attaccherà lo stato con le armi, lo Stato risponderà nello stesso modo”.
Non ci vorrà molto tempo perché ciò avvenga.
IL 12 maggio a Roma durante la manifestazione non autorizzata organizzata dal Partito radicale, perde la vita una giovane femminista Giorgiana Masi, uccisa da un agente in borghese, vestito da “autonomo” e infiltrato tra la folla di manifestanti.
La scia di sangue non è ancora finita; due giorni dopo a Milano verrà ucciso un agente, Antonio Custrà.
Man mano che cresce l’uso delle armi e della forza, i gruppi extraparlamentari di sinistra entrano in una profonda crisi, fino a scomparire dalla scena politica.
L’escalation di violenza incontrollata e incontrollabile risulterà catastrofica anche per lo stesso movimento.
Dopo le drammatiche vicende di aprile – maggio il movimento, infatti, sembra ripiegarsi su se stesso, lacerato dalle diversità interne e dalle spaccature proprio riguardo all’uso irrazionale e incontrollato della violenza degli ultimi episodi.
Il movimento sembra tornare in settembre a Bologna, in occasione del convegno del Movimento sulla repressione.
Il movimento con le sue proposte e la sua vitalità sembra tornato…ma è solo una breve e intensa fiammata.
Di nuovo a Roma il 30 settembre un giovane di Lotta continua, Walter Rossi, viene ucciso dai fascisti.
Tutto riprecipita di nuovo nel clima di agitazione e terrore della primavera passata e così sarà per i mesi successivi: scontri, manifestazioni, dure repressioni, chiusure e divieti.
Ormai il movimento non esiste più: lunghi mesi di violenze e repressioni lo hanno indebolito; esso scompare, si ritrae, rifluisce in mille rivoluzioni, in mille percorsi di liberazione e di angoscia.
Il 16 marzo 1978, con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta ad opera delle BR, sarà la fine decisiva per il movimento.
Il tentativo di riprendersi e dichiarare la propria estraneità dall’atto con lo slogan “Né con lo Stato, né con le BR”, sarà inutile; in quel momento drammatico per chi vuole agire politicamente non ci sarà alcuno spazio.
O con lo Stato o con le BR sarà la tragica realtà.
Con il movimento del ’77 si chiude definitivamente un epoca storica e politica e se ne apre un’altra.
Finisce l’epoca della fiducia nel partito e nell’agire politico e si apre una profonda crisi soprattutto nelle giovani generazioni che hanno assistito al fallimento dei vecchi strumenti politici nel risolvere la crisi in atto, al fallimento clamoroso dell’idea di rivoluzione comunista, l’incapacità della classe politica di risolvere i problemi.
Quindi, per molti militanti del movimento; l’unica via d’uscita sarà l’esodo dalla politica.
Nel corso degli anni ’70 due tendenze opposte avevano dato forma alle cosiddette “culture giovanili”.
Da una parte vi era la tendenza a guardare con fiducia e ottimismo al futuro e agli sviluppi in campo economico e tecnologico; dall’altro vi era la tendenza “controculturale” che rifiutava l’omologazione e la privazione di libertà, che inevitabilmente si accompagnava alla crescita della società moderna dei consumi.
Queste due tendenze erano entrambe il frutto diretto dell’etica del benessere e dello sviluppo capitalistico, erano le due facce della stessa medaglia.
Ma negli anni ’70, e in particolare proprio nel 1977, il quadro politico e sociale del paese muta: la crisi violenta rompe ogni fiducia nel futuro e l’orizzonte non appare più rassicurante.
E’ inevitabile che la tendenza che prende il sopravvento è proprio quella “controculturale”, la speranza dei movimenti rivoluzionari lascia il posto ad una cupa disperazione e ad una sfiducia nella modernità negli sviluppi tecnologici.
“I giovani che vengono sulla scena dopo il ’77 sono, in effetti, ben diversi da quelli che li avevano preceduti: essi sono gli spettatori del crollo dei miti sociali del moderno. La crisi di prospettiva della società moderna appare loro come il venir meno di ogni possibilità di futuro.
Il punk è in questo senso la lucida consapevolezza di un mutamento epocale”. [Nanni, Balestrini, Moroni; 1997; pag.629].
In Italia alla speranza e alla violenza dei primi mesi del ’77 si sostituisce un acuto pessimismo, terreno fertile per lo sviluppo del movimento punk.
Le nuove generazioni, soprattutto quelle che provengono dalle realtà di marginalità e miseria della periferia, sono quelle che sentono la crisi in modo più drammatico.
Abbandonano ogni fiducia nel futuro , si spingono verso un rigido rifiuto per tutto ciò che è “società”, mutano il loro atteggiamento nei confronti del lavoro, della politica, della famiglia, dello stile di vita.
Non bisogna attendersi nulla dal futuro perché non c’è futuro per i valori umani, per la solidarietà, per la libertà e per il piacere di vivere.