“A Milano nel 1979 l’aria era grigia- pesante come cemento armato – di colpo tutto sembrava invecchiato, i costumi, gli eskimo, le clark e le lunghe gonne a fiori; il linguaggio- compagni e compagne, assemblea e cortei- la musica…Chi aveva dai 18 anni in giù e la potente voglia di cambiare il mondo poteva scendere in strada direttamente dall’ultimo piano di un megagrattacielo I.A.C.P. di Gratosoglio…il tonfo non l’avrebbe sentito nessuno.”
Questo il clima che si respira in città, secondo il racconto di uno dei primi, giovani punk…
Capitolo terzo
Il clima a Milano in quegli anni era molto teso: le sedi politiche extraparlamentari chiudevano, o, più facilmente, venivano chiuse con la forza; una parte dei giovani legati ai circoli del proletariato giovanile, protagonisti degli anni precedenti, veniva travolta dal ciclo dell’eroina e una parte cospicua dei quadri militanti operai e sociali si dava alla clandestinità e impugnava le armi.
Da parte dello stato veniva messa in moto una violenta macchina repressiva, legittimata dall’intero sistema dei partiti.
Per la componente ribelle della generazione emergente, gli spazi di agibilità e movimento sono quasi impossibili: i compagni non li capiscono e il tessuto sociale li osserva con sospetto, diffidenza e rifiuto.
Per loro la pratica punk diventa il “riconoscersi tra uguali”, la possibilità di unirsi e combattere insieme contro il tentativo di omologazione del sistema.
Alla fine degli anni ’70, a Milano, i punk non hanno vita facile: sono ancora pochissimi e non hanno rapporti tra di loro perché mancano i luoghi dove incontrarsi in città.
Molti si limitano a “trasformarsi” in punk nel fine settimana per avere un look diverso e originale, ma tra questi c’è già qualcuno per cui il punk non è una semplice moda, ma rappresenterà una vera e propria scelta di vita.
La maggior parte di loro proviene dalla periferia: Baggio, Quarto Oggiaro, Corsico, Rozzano, etc…tutti luoghi ormai invivibili a causa del dilagare dell’eroina e della delinquenza.
Nella parte sud della città si formano le prime aggregazioni forti e complesse: a Ronchetto, a Trezzano sul Naviglio, nel quartiere Barona.
Da quelle parti c’è anche l’Onnicomprensivo di Corsico, un’orrenda “fabbrica scolastica”, che produce prototipi umani destinati ai lavori tecnici non qualificati, mentre tutto il ciclo produttivo della città richiede manodopera specializzata e saperi in continua mutazione.
Per questo la stragrande maggioranza dei giovani riceve una formazione professionale che difficilmente servirà loro per inserirsi nel mercato del lavoro.
I punk però sentono il bisogno di abbandonare le periferie, le panchine e i muretti; vogliono creare mondi separati.
Nelle cantine della zone sud proliferano decine di gruppi musicali, tra questi Wretched, che saranno fondamentali nell’esperienza del Virus.
La musica diventa un progetto e uno strumento per comunicare, l’unico mezzo per opporsi e combattere una società ostile.
Le periferie e gli hinterland sono esausti e depotenziati, dimenticati dalle amministrazioni comunali; sopravvivono a fatica pochi luoghi di resistenza accerchiati dall’eroina e dal ciclo di criminalità.
Per molti punk la migrazione verso il centro della città, oltre che per incontrare “simili” e “farsi vedere” dal resto della cittadinanza, è, quindi, una vera e propria necessità: la necessità di lasciare un ambiente marcio e non cadere nella noia e nell’abbandono.
I punk sentono come irrinunciabile il bisogno di radicamento in zone socialmente più dense di opportunità, incroci, visibilità.
Nell’esperienza punk confluiscono sia una parte degli “sconfitti” dei circoli del proletariato giovanile, sia coloro tra i più giovani che sentono il bisogno profondo di un’azione collettiva, separata e fortemente riconoscibile dai segni, dai modi e dallo stile.
Certo è che la comparsa di questi nuovi “soggetti” nel cuore di Milano non passa inosservato, né per le altre aggregazioni giovanili già presenti, né per i “normali” cittadini.
I primi luoghi di ritrovo sono situati in pieno centro della città, rigorosamente per strada: la fiera di Senigallia e Via Torino, una delle vie più “visibili” del centro.
Qui si incontrano con i “fioruccini”, chiamati così perché si ritrovano davanti al negozio del noto stilista.
Sono giovani che passano il loro tempo tra la discoteca e il divertimento, completamente disinteressati ad ogni discorso politico.
I primi punk si avvicinano a loro perché sono gli unici in città vestiti “strani”, ma subito emergono differenze enormi e la convivenza tra i due gruppi si fa sempre più difficile.
Anche con i giovani “di sinistra”, quelli che sono rimasti dopo il crollo del ’77, il rapporto non è facile.
Ai loro occhi i “compagni” sono ancora troppo politicizzati e legati ai vecchi schemi; mentre da questi i punk vengono spesso visti come “fascisti”, per i loro vestiti neri, il look aggressivo e qualche svastica sulle magliette strappate.
Queste le parole di un giovane punk:
“..le vie del centro sono il nostro palcoscenico naturale- abbiamo i riflettori puntati- nel nostro atteggiamento c’è qualcosa di nuovo- i nostri vestiti sono autocostruiti e ispirati vagamente alle foto che abbiamo visto sui giornali o alla TV- giubbini di pelle nera con la borchie e le scritte sulla schiena- capelli saponati- anfibi militari italiani- jeans neri attillati strappati- t-shirt bucate e rattoppate con le spille da balia…
Non riusciamo più a socializzare con i discotecari- così abbiamo tagliato tutti i ponti con il passato- sono troppo noiosi- già parlare di Donna Summer è difficile figuriamoci di Johnny Rotten o dei Generation X- vanno a lavorare e alla sera si riversano qua- provano a fare i John Travolta di periferia ma non fanno niente per cambiare la loro vita- finiranno peggio dei regolari…Coi compagni ogni rapporto è pressochè impossibile- al sabato se non ci sono gli scontri con la madama se la prendono con noi- nel migliore dei casi ci sfottono- “conciati come siete vi fate riconoscere subito e vi blindano in un secondo”- nel peggiore dei casi ci prendono per fascisti e allora c’è solo da scappare […] “ [M. Philopat, 1997, pag.14- 15]
Anche la stampa si occupa di loro, soffermandosi però sempre sui caratteri più superficiali e folcloristici, tralasciando completamente le motivazioni reali della nascita di questo movimento.
Vengono visti da tutti come dei perdigiorno, senza nessun ideale che si limitano a girare minacciando la quiete cittadina.
“Una volta c’erano gli hippies, belli con quei loro fiori nei capelli, l’aria un po’ triste per la noia e il fumo, ma mai violenta. C’erano i Rockers, i Teddy Boys. Con l’aria violenta si, ma tutto sommato di una violenza costruttiva, diretta a distruggere una società che a loro non andava, spinti dall’entusiasmo per qualcosa che non era ancora definito, ma si cominciava a respirare nell’aria. La contestazione. E sono arrivati i ragazzi degli eskimo e dei caschi. Ci sono ancora oggi. Tirano molotov e ogni tanto anche sparano. Metodi che possiamo non condividere, ma che sono causati da un profondo, reale malessere. Le facce di questi nostrani punk esprimono invece noia. La noia di ritrovarsi in qualche discoteca o davanti a qualche bar […].”[II]
Per i media, i punk, paragonati ai gruppi giovanili preesistenti, sono solo un gruppetto di giovani annoiati che imita i veri punk inglesi, un fenomeno provinciale e importato.
Questa immagine negativa e questi luoghi comuni resteranno sempre fortemente radicati nei cittadini milanesi, per cui i punk rimarranno sempre dei disturbatori marci e sporchi, dei consumatori di droghe e alcool e saranno, quindi, incapaci di cogliere, invece, la diversità di un’esperienza come quella del Virus.