Era il 20 Marzo 2016, non un giorno come un altro perché, dopo una telefonata arrivata la sera prima, alla quale non ero riuscito a rispondere…
arriva a bruciapelo la notizia che Roberto era partito per sempre.
Oggi sono 5 Anni, io come tanti siamo ancora increduli… Roberto era una persona che difficilmente dimenticheremo, per tanti motivi ma sopratutto perché era una persona vera.
Abbiamo chiesto a Simone Lucciola di Lamette, Gioventù Bruciata e tanto altro, di scrivere un Ricordo… a chi se non a un Fratello Minore che ha percorso con lui tante strade?
Grazie Simone, e a voi Buona lettura e Ricordate, Il Perci grida ancora.
Fulvio Devil Pinto
L’ultima volta che l’ho visto era stanco e provato, mentre usciva da casa mia all’alba per prendere il treno che lo avrebbe riportato a Roma, ed era così anche la prima volta che salii a casa sua a via Filippo Turati, dopo aver fatto un sacco di scale che lui si faceva tutti i giorni avanti e indietro più volte: lo trovai stravaccato su una poltrona da barbiere che teneva davanti al caminetto, onnipresente in tutti i luoghi da lui abitati, di ritorno da uno dei due lavori che faceva quotidianamente di fila per mantenere se stesso, le sue follie e quella specie di loft soppalcato pieno di quadri.
Sul focolare teneva una Pietà di Michelangelo dove il Cristo aveva una pera enorme conficcata nel braccio, opera sua: la stessa che trovate nella copertina del cd-raccolta “Come se nulla fosse”, di cui negli anni Novanta qualsiasi punk della capitale aveva una copia. Dico questo perché Roberto a trent’anni era già quello che sarebbe poi rimasto per tutta la vita: un terrorastista, maledetto suo malgrado, e caparbio quanto basta per mettere in pratica qualsiasi idea gli passasse per la capoccia, con un’assenza di pregiudizio così totale che spesso rasentava, toccava o valicava il piano della sperimentazione.
Entrando nel suo studio, avevi sempre l’impressione di trovarti al cospetto di uno scienziato pazzo, e se alcune delle sue trovate non sono state capite, o addirittura gli hanno attirato addosso una pioggia di critiche, altre restano semplicemente geniali: le maglie calcistiche bipartite (né Roma né Lazio, ma nell’armadio aveva anche né Milan né Inter, né Perugia né Ternana, né Barcellona né Real), le armi ingessate o le armi-chitarre e microfoni, il Vegetebol (che poi era il suo profilo stilizzato, e tutti i suoi mobili erano a forma di Vegetebol, perché era anche falegname e se li faceva da sé), e soprattutto, quei testi semplici, diretti, crudi e senza filtro, quasi dialettali, con cui ancora pressoché adolescente ha scritto un capitolo indelebile della storia del punk italiano e mondiale: i Bloody Riot. Cosa mi colpì dei dischi dei Bloody Riot? Cosa colpì tutti? Erano cupi, spontanei e truci come gli anni di piombo di cui erano il tornasole, con una vena epica e malinconica insieme, e Lorenzo e Alex (con Cesare, e meglio ancora con Fabiano) erano tra i migliori compositori e musicisti in cui ci si potesse imbattere nell’Italia degli anni Ottanta. Con mezzi lo-fi che si rivelarono fondamentali, crearono un piccolo miracolo.
E aggiungo: i Bloody Riot, presi singolarmente, avevano e hanno sempre avuto tutti un profilo intellettuale, da appassionati di dischi, fumetti, cinema, arte e letteratura, che mal si combina con l’etichetta di coatti borgatari che gli hanno sbrigativamente ed erroneamente appiccicato addosso; ma che può convivere benissimo, invece, con la realtà, selvaggia e disagiata quanto vuoi, dei ragazzi della strada. Tornando al caso specifico di Roberto: se siete punk e avete degli idoli, allora del punk non ci avete capito un cazzo; questo però non significa che la voce di determinati cantanti, che pure non volete mettere su un piedistallo, non vi abbia comunque accompagnato nella crescita. Nel mio caso, il proprietario della voce e l’amico si sono trovati a coincidere nella stessa persona fisica. Che culo! Il mio idolo, che com’è noto andava a targhe alterne a seconda della giornata, mi faceva delle cazziate interminabili: «A Simò, vattene a lavorà!», «A Simò, e falla finita de beve!». Sosteneva che se avessi continuato così sarei morto.
Poi invece è morto lui. Adesso mi consola pensare che un giorno saremo morti tutt’e due, e forse tornerà a mandarmi affanculo. Scherzi a parte, non sono mai riuscito ad accettarlo. Molto vigliaccamente, non voglio farci i conti. La banda Bloody Riot, alias Brigata Teppa Life, ha organizzato un concertone al Forte Prenestino per commemorarlo e mantenere una vecchia e mutua promessa, e le prove per il Perci si sono tramutate incredibilmente in una festa tra amici, così come anche la serata pazzesca che ne è venuta fuori.
Ma vedere i Bloody Riot attaccare “Nervous breakdown” senza che lui arrivasse sul palco di corsa, per poi buttarsi di schiena tra la folla, mi ha fatto malissimo. Ho finto di non farci caso, come tuttora continuo a fingere che sia in vacanza e che mi abbia lasciato delle gatte da pelare e alcuni regali mentre è via: sistemare le cose con gli amici, ereditarli più o meno tutti (lo scambio continuo di telefonate con Lorenzo, che ringrazio pubblicamente, ha preso il posto di quello con Roberto), rispondere a delle domande a cui dovrebbe rispondere lui, e altre faccende private, di cui non ha senso parlare in questa sede. E ovviamente, scrivere questo ricordo su richiesta di Fulvio, che è un amico importante e vero, e che ci tiene quanto me.
So che Roberto mi considerava come una sorta di fratello minore: è una cosa che ho scoperto solo dopo, per interposta persona. Lui non me l’ha mai detto. Anche per me, che ricambio e allo stesso modo non ho mai fiatato, era ed è sempre – e ancora – famiglia. Insieme abbiamo calcato il suolo di palchi, centri sociali, baretti, spiagge, trattorie e sale prove, e guidato per chilometri nella notte, inventando stronzate per quasi vent’anni: canzoni, concerti, fumetti, registrazioni. In un inedito che ho conservato, su un pezzo dei Gioventù Bruciata – da James Dean, ma vallo a spiegare al Perci! – si sente la sua voce inconfondibile (registrata su computer, aveva uno spettro spesso due volte il mio) che grida: «Dacce ’n artra Peroni!». Ogni volta che lo metto rido.
Insieme abbiamo condiviso una sorta di idiosincrasia e incompatibilità di fondo verso la realtà, per motivi in parte chiari e in parte incomprensibili. Sono cose che ti accompagnano fin dalla nascita, e che cerchi di rabberciare sempre e per sempre, senza mai riuscirci veramente del tutto.
Quando abbiamo rotto il ghiaccio, ero a un concerto degli U.K. Subs al Villaggio Globale: avevo una giacca da neve blu, su cui avevo cucito una toppa Bloody Riot che mi ero fatto da solo con lo stencil. Mi avvio verso l’uscita, per accendermi una sigaretta all’aperto, e mi sento tirare su un fianco: «Ao, ’ndo l’hai pijata questa?». Era lui. «Ah, ma sei tu!», faccio io, tra il divertito e l’imbarazzato. E lui, sorridendo, caccia fuori il cannone con tanto di flash che mi spara in faccia, e mi scatta una foto a tradimento, prendendomi in contropiede totale.
È ancora lì, a pagina 185 del suo libro.
Simone Lucciola