ROSKILDE 2007

Se dovessi trovare una parola che sintetizza quattro giorni di Roskilde Festival 2007 non avrei dubbi: pioggia.
…Lei, ed il fango che s’è portata dietro, hanno inevitabilmente caratterizzato questa 37° edizione del più grande festival del nord Europa.

 

 

Ma non pensate subito a Woodstock e alla gente che fa i bagni nelle pozzanghere, perché da queste parti l’organizzazione è invisibile ma sempre presente, per cui trucioli, paglia ed ogni altro genere di materiale viene sparso per l’area per limitare il disagio. E cosa fa la gente? Non abbandona le proprie tende, neanche quando sono ormai allagate e lo saranno per i giorni a venire.Tenaci questi danesi. Passando alla cronaca spiccia si è registrato, secondo anno consecutivo, uno straordinario sold-out, che porta a circa 115mila i presenti, capaci in un giovedì che ha scaricato cinque centimetri d’acqua sulla testa di non perdersi una sognante esibizione di Bjork, senza rinunciare prima a vedere la band di cui parlano tutti: gli Arcade Fire capaci di evangelizzare in salsa rock. Ottimi. Vi evito il resocondo di John Legend per concentrarmi sui Mastodon: è il loro secondo passaggio da queste parti ed il pubblico risponde alla grande; per la loro terza calata li aspetta, ne sono sicuro, il palco principale. Il giorno successivo il cielo, miracolosamente, non concede il bis di pioggia, e questa provvidenziale pausa ci permette di fare una vera e propria maratona.

 

 

 La corsa parte alla grande con i Mando Diao: possibile che un gruppo che suona stanco e noioso su disco trovi grinta e coesione su un palco? Evidentemente si a guardarli scatenare il pandemoniotra i presenti. Ottimi. Sarà che non sono il mio pane quotidiano, ma a me gli In Flames proprio non han detto nulla; evidentemente siamo in pochi a pensarla così a giudicare dall’affluenza per la loro esibizione. Meglio quindi concentrarci sui My Chemical Romance, che vengono accolti da grida in stile boy band e che sciorinano un concerto formalmente ineccepibile ma che non scatena particolari entusiasmi. Sei mesi di tour cominciano a farsi sentire, però da Gerard e soci era lecito aspettarsi di più, soprattutto se li si paragona a Roky Erickson e ai suoi Explosives. Prendere lezioni di rock da un quasi sessant’enne passato anche dal soggiorno obbligato in manicomio non è molto onorevole, è però divertente per chi, e sono parecchi, non se l’è perso.

 

 

DeiBeastie Boys viene davvero difficile parlare male, ma il loro concerto ha convinto solo in parte, perché se è giusto promuovere un disco appena uscito è anche sfiancante ammorbare i presenti con intermezzi strumentali di un quarto d’ora tra una “Sabotage” e l’altra. La bravura non è in discussione, ma l’occasione è stata un po’ sprecata. Chi invece gioca la parte dello sfortunato è Josh Homme che, con i suoi Queens of the Stone Age è l’headliner, di fatto, della giornata. Tutta l’acqua presa dall’impianto si vendica con loro, rendendo per una buona mezz’ora difficile sentire decentemente qualcosa. Quando le cose vanno a posto è invece il concerto a non decollare: preciso, equilibrato tra vecchio e nuovo e suonato alla grande, ma senza pathos. E si torna a dormire con in testa questa domanda: una giornata no o avvisaglia di qualcosa di più grave? Il nostro sabato inizia con strani doveri istituzionali, ad esempio gare a bere birra e montare tende nel minor tempo possibile. Siccome sono sincero ammetto di essere arrivato penultimo, ma solo per colpa della tenda. Ritorno all’occupazione principale giusto in tempo per gli Hayseed Dixie, ovvero coloro che prendono tutta la musica rock, meglio se pesante, e la trasformano in country e dixieland. Un giochino divertente per il primo quarto d’ora, dopodiche lo sbadiglio è assicurato.

 

 

Meno male che spuntano in mezzo al fango i Flaming Lips ed il loro concerto-happening-cabaret. Voi avete mai visto un Picachu di due metri spuntare all’improssivo da dietro la batteria? O un uomo dentro una palla di plastica che cammina sopra al pubblico?Ecco, io si, e un’ora e mezza in compagnia di Wayne Coyne e sodali è un’esperienza di quelle da fare prima o poi. Forse lo è, ma per tutt’altri motivi, anche vedersiMark Lanegan e Soulsavers. Si può vedere il gelo di un cantante assolutamente assente, che pianta prima i compagni e poi il pubblico dopo quaranta minuti scarsi di concerto. Sono anche arrivate le scuse di persona, ma qualcosa non ci torna lo stesso. Ma ora, signori e signore, non c’è storia: il palco dell’Orange Stage sta per essere calcato da loro, gli Who. E potete anche dire che sono due quarti di quella grandiosa macchina da guerra che fu trent’anni fa, o che Roger Daltrey ha lasciato la voce a Glastonbury o a Verona, ma a me viene ancora la pelle d’oca quando sento “Baba O’Reily” o “You Better You Bet”. A giudicare dai ruggiti della folla, e dai sorrisi di chi sta sul palco, non siamo in pochi a pensarla così. Un concerto dignitoso che rende comunque onore al mito. E non scomodiamo di certo lo stesso aggettivo per i Red Hot Chili Peppers, ma ad attenderli c’è veramente un mare di gente.

 

 

Loro, reduci da un inutile Live Earth, le provano tutte –jam interminabili, non un grazie o una parola- per far scappare la gente, ma non ci riescono e si beccano pure ovazioni su ovazioni.Si scoprirà poi che il buon Anthony Kiedis non sta per niente bene e che s’è rischiato il forfait all’ultimo minuto: apprezziamo la dedizione, meno lo spettacolo. Andiamo a consolarci con la Fanfare Ciocarlia, che in un Cosmopol brulicante di gente in preda ai fumi dell’alcool regalano un’ora e mezza di danze e sudore. Più o meno la stessa cosa, ma le ore sono quattro, che regala Tiesto qualche centinaio di metri (e anni luce) più in la. A questo punto, le quattro, la fatica è già andata a dormire da un pezzo, meglio seguirla. La domenica inizia subito forte con gli Strung Out, un gruppo per cui non stravedo ma che, ad onor del vero, qui riesce a convincere davvero tutti. Una ressa al merchandise di quelle da deposito di Paperon de Paperoni ed un disco, l’ultimo, i cui estratti mi sembrano convincenti. Inaspettati. Ora potete anche lapidarmi, ma io gli Ark non volevo proprio perdermeli, e a giudicare dal risultato ho visto giusto. Dopo il successo mainstream i nostri confezionano un album fieramente glam edannatamente indipendente, con un frontman vestito a la Freddie Mercury e grinta da vendere. Gioceranno pure in casa, ma qui cantano davvero tutti. Meno male che ci sono iPelican, ed il loro psycho-metal strumentale, a calmare i bollenti spiriti. Non una parola ma tanti applausi, e vista la proposta è un successo su tutta la linea. Successo che, inaspettatamente almeno per il sottoscritto, bacia anche gli Against Me!, che si esibiscono in contemporanea agli Arctic Monkeys ma che fanno comunque il pienone. Aggressivi e politicamente (s)corretti i quattro hanno fin dall’inizio il favore del pubblico, e si tolgono ogni possibile soddisfazione, incluso un bagno di folla finale. Se questo è passare su major allora ben venga. Il sipario su Roskilde 2007 si chiude, almeno per me, con i Muse. Suonare con la luce del giorno non rende loro giustizia, ma la musica e lo spettacolo di Bellamy e soci sono da superstar, ed il pubblico di conseguenza. Un successo dietro l’altro e qualche saluto in danese e per noi è già il momento dei saluti. Questi campi, calcati in trent’anni da tutti i più grandi, hanno davanti a loro undici mesi di riposo. Noi invece undici mesi di attesa. Ma, come sempre, ne vale assolutamente la pena.

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