ROCK IN IDRO – Ven. 02 Set. 2005

Il nuovo festival “punk” milanese inizia col botto: line-up come non se ne vedevano da tempo e discreta ressa del pubblico ai cancelli fin dalla mattinata di venerdì…

Innanzitutto la location: invitante, con molto verde e zone d’ombra per rilassarsi nei (pochissimi) momenti di sosta Anche le rampe da skate ed i vari stand ci sembrano ben piazzati, ed anche se si ripete il furto dei generi alimentari (birra media _ 4,50) il resto passa bene l’esame. I due palchi poi per tutta la durata del festival si daranno egregiamente il cambio, senza tempi morti ed addirittura in anticipo rispetto alla scaletta prevista.

Ma andiamo al sodo: inaugurano il festival ­almeno per quanto mi riguarda- gli Useless I.D., con una performance delle loro che se al sottoscritto lascia indifferenti sembra essere gradita dal pubblico presente. Love in Elevator, sul secondo palco, decisamente più urticanti; la loro non è una proposta immediata ­a metà strada tra i Death from Above ‘979 e certo indie rock- ed il pubblico non si scalda troppo, ma ci sanno fare e avrebbero meritato di più.

Mi salto la performance dei Voicst, e non sembro l’unico ad essersene dimenticato, per non perdermi invece i Super Elastic Bubble Plastic, sempre sul palco principale. Questi tre ragazzi mantovani sanno il fatto loro e confermano quanto di buono ascoltato sul recente “The Swindler”: una furia sonica di quelle da tenere d’occhio. Dei Bikini the Cat non posso dire granché, a parte Luca dei Verdena alla batteria il resto mi è sembrato un rock energico ma senza grande inventiva, disattenzione mia o poca verve loro? A voi la scelta.

I No Use for a Name, che su disco hanno perso ormai da tempo la bussola, riescono invece dal vivo a rigenerarsi, complice una scaletta-amarcord e i toni decisamente più arrabbiati. Tony e soci convincono tutti, anche le generazioni più giovani che, poveri loro, sierano persi il gruppo nel loro periodo migliore.

Mi perdo i Nomoredolls per problemi logistici ma quando Juliette Lewis sale sul palco sono in prima fila: sul disco i suoi Licks non dicono niente di nuovo, ma l’attrice-feticcio di “Assassini Nati” sul palco si dimostra capace di graffiare e provocare, nel più classico clichè rock. Non è una rivoluzione, ma la voce ci sembra esserci, il gruppo ­mi dicono ex H2O in cabina regia- supporta a dovere e il divertimento c’è, complice un finale a la Stooges.

Chi invece sostanza ne ha da vendere sono i Valentines, ovvero quattro non più ragazzi che hanno come unica sfortuna di non abitare a New York. Il loro punk’n roll infiamma il second stage, regala ai presenti una lezione di quelle serie e l’unico dubbio che rimane a fine concerto è: “perché non sono già famosi?”.

Famosi, di culto si direbbe, sono invece i Turbonegro: c’è chi non capisce la loro ironia, chi non apprezza i loro dischi, ma su un palco danno lezioni a molti. La partenza è con “All my friends are dead”, ed il resto è tutto un fluire di brani vecchi e nuovi suonati con grinta e supportati dalle clownerie rock di Hank Von Helvete, Pol Pot e Euroboy.

Lontani i tempi degli eccessi, almeno in apparenza, quello che rimane è soltanto grande musica: se non li avete capiti è perché siete troppo giovani, beati voi.

Piacenza come Orange County, e gli Stinking Polecats come alfieri musicali di quest’affinità. Ritornati di recente sulla ribalta dopo un periodo buio Mone e compagni sembrano suonare da sempre assieme, affiatati e compatti come pochi. Esibizione impeccabile e ottimi pezzi: ce ne fosse di più di gente come loro.

Che dire poi dei Pennywise? Si fanno una breve vacanza in Italia per suonare solo da noi, salgono sul palco sobri ed intonano una serie di classici da ABC del punk californiano, e già questo basta, ma se aggiungiamo che il gruppo ha voglia di divertirsi e che musicalmente rimangono la macchina da guerra che sono da sempre la recensione la capite da soli, no? Ottimi. I Vanilla Sky invece non mi fanno impazzire, ma evidentemente si tratta di un problema personale vista la loro accoglienza; me li ascolto da lontano inghiottendo veloce una pizza e mi sembrano un bel gruppo, sanno suonare e scrivere buoni pezzi, peccato solo che non li apprezzi come il resto dei presenti.

Chi invece apprezzo parecchio sono gli Hives, questi si abbastanza snobbati dal pubblico. Sarà per il loro modo di porsi -dove l’ironia e la presa in giro trionfano- ma mi pare che non siano stati capiti; loro in un’ora frullano trent’anni di punk e rock’n roll e ci sembrano in gran forma, il pubblico meno, forse in attesa degli headliner.

Che gli Offspring non fossero in un ottimo momento lo si poteva immaginare: una raccolta nei negozi e pochissime date live per promuoverla parlano da sole, ma guardandoli sul palco la sensazione era ancora più forte. Unico interessato veramente allo show mi è parso Noodles, sezione ritmica precisa ma compassata e il fantasma di Dexter sul palco a cantare.Per carità: la scaletta è stata ben preparata -materiale da tutti gli album privilegiando però i brani più “duri”- e non possiamo muovere appunti sulla riuscita musicale, anche la voce era bella come poche volte in passato, peccato che si capisse da un chilometro che alla band non importava essere li: un lavoro in cui timbrare il cartellino alla fine. Chi non ci ha fatto caso si è divertito e noi siamo contenti per loro, agli altri resta l’amaro in bocca per un’occasione sprecata. Ultimo dubbio: li rivedremo ancora dalle nostre parti? Visti i presupposti…

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