La mia intervista ai Peawees

Ho avuto il piacere di fare qualche domanda a Hervé, storico frontman dei Peawees, in occasione dell’uscita del nuovo disco “One Ride” e ne è uscita una chiacchierata davvero interessante. Grazie a Wild Honey Records per la mediazione.

 Nel 2025 saranno 30 anni di Peawees, al di là dell’evoluzione musicale della band, passata da suoni più punk verso un rock ‘n’ roll più ricercato, cosa hai visto cambiare attorno a te? L’evoluzione della società influenza la crescita di una band?

Nel caso specifico dei Peawees ti direi che la crescita e l’evoluzione del suono sono più legati ad una ricerca personale che esula da quello che succede intorno a noi. Come hai detto tu siamo partiti dal punk e ci siamo fatti contaminare da altri generi come il garage rock, il soul e il rock n roll che sono comunque le radici del punk. La nostra attenzione è sempre stata rivolta principalmente a questo tipo di ricerca anche se poi è innegabile che in qualche modo l’evoluzione della società ti influenza spingendoti a voler aggiungere qualcosa di nuovo a quello che è già stato detto.

Avete già in mente qualcosa per festeggiare il traguardo dei 30 anni?

Ne stiamo parlando, anche se tutte queste celebrazioni e anniversari stanno diventando ridondanti e rischiano di tenerci incollati al passato. Non faccio altro che vedere anniversari su anniversari per ogni cosa. Mi piace l’idea di fare una festa con i vecchi membri ma deve essere qualcosa che dura un giorno. Non voglio che il 2025 diventi il “30 years anniversary tour” o una cagata del genere. Bisogna andare avanti e celebrare la freschezza di cose nuove.

Fate sempre passare quasi 5/6 anni tra un album e l’altro, è una scelta o un aspetto dovuto alle circostanze?

È entrambe le cose. Chiunque potrebbe fare un disco all’anno ma questo non vuol dire che hai sempre qualcosa da dire. Tutti nella vita abbiamo momenti in cui siamo più ispirati o meno. Sul nostro ultimo disco ci sono 11 canzoni ma ne avrò scritte almeno 20.
Avremmo avuto materiale per due album, ma preferisco farne uno in cui credo al 100%, piuttosto che farne due mettendo dei riempitivi. Credo sia la scelta più onesta, sia nei nostri confronti che in quelli di chi ci ascolta.

One Ride è il vostro ultimo album, appena uscito per diverse etichette, in Italia per Wild Honey Records, qual è la storia dietro al titolo del disco e cosa ci dobbiamo aspettare mettendolo sul giradischi?

È un disco rock n roll nel senso più vasto del termine che racchiude i nostri ultimi 5 anni di vita e che racconta diverse situazioni e stati d’animo: storie di outsiders, amore, c’è frustrazione, ironia, entusiasmo, rassegnazione, storie personali e non.
“One Ride” è il filo conduttore tra tutto questo e la consapevolezza che abbiamo tutti quanti un giro di giostra e dobbiamo giocarcelo al meglio.

I testi parlano anche di dolore, perdersi, del voler andare, di occasioni perdute. Quali esperienze ti hanno portato a scrivere un disco a tratti oscuro, passami il termine, come “One Ride”?

Si, ci sono alcuni testi sicuramente più “oscuri” come dici tu ma c’è sempre un’alternanza con testi più positivi, sarcastici o ironici. Negli ultimi cinque anni ho affrontato un po’ di cambiamenti che sicuramente hanno influenzato alcuni testi ma di solito racconto storie di altri o situazioni che vedo e in qualche modo mi colpiscono. Tipo “Banana Tree” è la storia tragicomica che mi hanno raccontato di questo tizio pregiudicato fuggito alle Canarie per rifarsi una vita lavorando in una piantagione di banane ma il suo sogno viene interrotto quando le guardie vanno a prenderlo per riportarlo a “casa”.
“Who’s the enemy” si divide tra sarcasmo e amarezza, gioca sulle contraddizioni dei governi che abbiamo avuto negli ultimi anni, sulla loro costante necessità di trovare un nuovo nemico per conquistare nuova ignoranza.
Poi ci sono testi più metaforici, quasi onirici come quello di “The Wolf” che parla del dover fare una scelta: rimanere dove sei o prendere una strada che non conosci. La scelta dovrebbe portarti a qualcosa di positivo, non c’è negatività o rassegnazione. “Plastic Bullets” parla di chi vuole piacere per forza, disposto a tradire se stesso pur di riuscirci.
“Drive” è un insieme di pensieri su situazioni andate storte ma il ritornello si chiude con “I’ll just wait for another day” che lascia un finale aperto.
Adesso non voglio stare a parlare di tutti i testi del disco (ride) però in generale in “One Ride” ci sono situazioni che tutti quanti noi viviamo e nelle quali tutti possono ritrovarsi.

 Siete uno dei pochi gruppi italiani con un seguito e una credibilità all’estero, il rock ‘n’ roll è sicuramente un linguaggio internazionale ma come ti spieghi la vostra riuscita rispetto ad altri?

Penso sia, come dici tu, una questione di linguaggio, riferimenti e del modo in cui li rielabori. Una volta che hai capito quali sono le tue ossessioni, hai tutto quello che ti serve per avere la tua direzione artistica come band, e penso sia solo quella direzione a determinare chi sei. Il grosso del lavoro di un gruppo sta nel mettere giù le proprie ossessioni con un linguaggio proprio. Quando non tradisci chi sei, quando non fai le cose con l’intenzione di piacere per forza ma di soddisfare una tua esigenza, la coerenza viene fuori di conseguenza. Non so bene quale sia il motivo per cui siamo apprezzati all’estero, ma credo che abbia a che fare con quello che è il nostro “marchio di fabbrica”.

 I Peawees sono sicuramente una band da club, sia per il tipo di sound che per impatto visivo. Il mondo dei club rock è però in estrema sofferenza, mentre i cachet delle band si alzano per andare incontro alle spese sempre più alte, i locali devono tirare la cinghia a causa dei costi di gestione insostenibili e il pubblico fatica a pagare i biglietti e le bevande a costi sempre più alti. Questa crisi ha avuto un impatto su di voi e la vostra attività live? Quale pensi che sia la soluzione per uscire da questa impasse?

Oltre a suonare in una band gestisco anche un live club da più di vent’anni, quindi vedo la situazione da entrambi i punti di vista e ciononostante non ho una soluzione! Organizzare live è abbastanza complicato e spesso imprevedibile.
Riguardo ai Peawees non possiamo lamentarci di come stanno andando le cose ma è innegabile che stare nell’ambito dei live è diventato una roulette russa.
L’unica cosa che mi viene da suggerire è quella di fare eventi mantenendo dei buoni standard di qualità e cercare di non deludere chi frequenta anche se questo mette spesso il club in una posizione di rischio. A volte succede che ti aspetti il pienone per una determinata band e poi per una serie di casi, spesso incomprensibili, succede che fai un buco totale e il club si accolla il garantito, la siae, il vitto e alloggio e tutte le cose correlate.
Ma al di là di tutti questi discorsi che abbiamo già sentito mille volte c’è proprio un problema culturale.
In Francia, Germania, Olanda, Danimarca e Scandinavia i club ricevono sovvenzioni dallo stato che supporta anche gli organizzatori di concerti, in particolare quelli che promuovono artisti emergenti.
Ma tutto questo parte da un discorso appunto culturale e qua in Italia abbiamo ancora tanto da imparare.

Foto: Stefano Righi

Foto di copertina: Chris Haiderer

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