Potrei enumerarvile varie collaborazioni che Jesse Malin ha collezionato durante trent’anni dicarriera (è attivo dal 1980), ma non credo servirebbe a granché; ciò cheimporta non è la reputazione dell’artista in questione, ma la qualità di questoLove it to life (SideOneDummyRecords, 2010). È bene quindi cominciare col dire che l’album in questione nonmi è piaciuto particolarmente.
Malin,accompagnato dalla sua band, propone un pop-rock con disparate influenze chevanno da folk singers/cantautori /rockers (Neil Young, Bruce Springsteen, LouReed, Ryan Adams) ad una una serie di gruppi più o meno punk quali Clash, HoldSteady, Replacements, The Gaslight Anthem, etc.. L’album è ben curato dal puntodi vista dei suoni; chitarre sempre in evidenza, ritmi mai troppo mossi,andamento generalmente lineare. Ed è forse l’eccessiva piattezza il primoproblema. Si prenda per esempio il brano d’apertura, Burning The Bowery; il pezzo non è malaccio, ha una melodia discreta,ma la fiaccante lentezza del brano lo penalizza; All the way from Moscow invece (che è a mio parere il miglioredell’album), presenta un andamento più vivace che ricorda vagamente i MotionCity Soundtrack (grazie anche ad un parziale risveglio vocale di Malin), ma conThe Archer ricadiamo nell’ “andamentolento” non valorizzato da una melodia saporita; con il rock’n’roll dinamico di Black Bombox risolleviamo il morale perpoi essere definitivamente stesi da Lonelyat Heart, che presenta sì una bella melodia, ma è un pezzo eccessivamentefiacco e si riduce ad un cantilena lagnosa. Insomma, nei 35 minuti di musica proposta vi sono frequenti cali ditensione non adeguatamente ripianati da potenziali singoli o canzoni davverobelle dall’inizio alla fine; da un disco di pop-rock mi aspetto belle melodie eritmi un po’ più sostenuti, ma tutto questo non mi pare esserci in Love it to Life.
Discorsoprettamente di gusto è quello inerente alla voce di Malin, che non brilla perestensione, per timbrica (assai nasale) e per pathos, limitandosi ad essereintonata; in generale l’artista predilige il sussurro e il canto trattenuto. Seun cantante vuole il proprio nome a chiare lettere sulla copertina di un album,secondo me deve essere un grande songwriter o perlomeno deve possedere una granvoce; Jesse Malin è un songwriter discreto, ma sicuramente non un grancantante. La cosa che vocalmente gli riesce meglio è sussurrare, ma questosussurro pare un esercizio di stile, lontanissimo dalla malinconia del Bruce Springsteendi The ghost of Tom Joad o dal viriledolore dell’ultimo Johnny Cash.
In definitival’album non raggiunge per me la sufficienza; potrà piacere a chi seguiva giàl’artista, ma stavolta non me la sento proprio di consigliarvelo.