Non sono passati poi molti anni da quei “mitici” Anni ’80 dove la scena Punk e HC italiana era più presente che mai, anche se considerata ben poco dalle case discografiche e dal vasto pubblico.
Sono però passati secoli da quella che era l’atmosfera di quei tempi, a mio avviso irripetibile per tutta una serie di ragioni, che ci permetteva di “vivere” la musica, la nostra e altrui, in modi e termini differenti.
Quello che era ancora il mondo del vinile viveva anche nella scena alternativa sia in Italia che negli altri paesi e tutto un mondo, una comunità vi orbitava attorno.
Io avevo “scoperto” i dischi della mia musica preferita sul finire degli Anni ’70 e per la precisione in un negozio che, ancor oggi esistente, si chiamava Disco d’Oro e sotto il cui portico all’entrata dello stesso vi parcheggiava allegramente tutta la scena Punk locale: dai Raf Punk ai Nabat con l’aggiunta di tutta la gente che amava incontrarsi tra chiacchiere e progetti futuri.
I dischi erano ovviamente costosi in quanto importati ma si trovava sempre qualche Lira faticosamente racimolata per acquistare le ultime uscite.
Fu però dal 1982 che iniziai ad acquistare regolarmente Ep e LP ma ben lontano dalla mia area abitativa.
Durante il mio servizio militare tra Orvieto e Roma avevo percepito un lauto compenso per la traumatica esperienza della prima missione di pace all’estero che aveva catapultato noi poveri sfigati di leva nell’inferno di Beirut del dopo massacro di Sabra & Chatila e avevo deciso di spenderne un bel po’ in dischi in un piccolo ma fornitissimo negozio del centro dove trovavo le ultime novità.
Cristo! non mi sembrava vero di poter avere tra le mani materiale che era assolutamente introvabile, nè voluto, dai negozi di Pop e Disco.
Discharge su tutti: avevo già visto qualcosa in giro per l’Italia ma i prezzi erano davvero vergognosi e le mie finanze al momento non erano particolarmente floride e così feci incetta di un buon numero di singoli quali “WHY?”, “Realities of War”, “Never Again” fino al più recente e stupendo “Doomsday”.
Altre formazioni della scena CRASS mi interessavano senza contare i sempre graditi Angelic Upstairs, UK Subs/Urban Dogs ma quella americana mi stimolava soprattutto da parte di quelle chiamate Bay Area e Washington DC: formazioni come Germs, i Dead Kennedyes che già amavo, i Circle Jerks, i Flipper e perfino i tamarrissimi Plasmatics con quella vecchia porca di Wendy Williams (R.I.P.).
Solo dal 1983 in poi riuscii, grazie soprattutto alla frequentazione degli amici del VIRUS di Milano e del Cassero a Bologna di trovare ottime produzioni da tutto il mondo a prezzi assolutamente ragionevoli, permettendomi di fare incetta di vinile ma anche molte audiocassette con numerosi bootleg LIve delle mie formazioni predilette.
A parte i gusti personali, che variavano moltissimo da persona a persona, era il significato che queste canzoni avevano.
Non mi interessavano troppo i testi in quanto tali dato che quasi sempre erano imperniati in un forse troppo ripetitive tematiche politiche e ideologiche che lasciarono poi il tempo che trovarono (basti pensare alla fine di Discharge, UK Subs o CRASS) bensì le sensazione che i pezzi mi davano nel loro complesso.
Io, da vecchio Straight Edge che non consumavo droghe, avevo scoperto la mia vera dipendenza dal suono e dal modo di esprimersi dei cantanti.
Prendiamo un Cal dei già citati Discharge, formazione rivoluzionaria che ebbi la fortuna di conoscere e vedere in UK e che ha influenzato band come Metallica e Antrax: sputava le sue parole con urla di furore, proiettili di anima addolorata e furente di cui non te ne fregava nulla del significato letterale perchè tutto era già espresso nelle sensazioni che suscitava.
Prendiamo Darby Crash (R.I.P.) dei Germs: che ti fregava delle sue splendide liriche quando avevi una voce come quella che ti faceva venire la pelle d’oca con quel suo rantolo arrochito che gridava “Sono una pantera confusa e mai riuscirete a mettermi in una gabbia (credo fosse Manimal)”.
Era quello che scatenava la musica a livello interiore che amavo.
Ricordo che, appena terminata l’esperienza militare, durante i primi giorni mi ritrovavo assolutamente disadattato: passavo le giornate seduto a godermi i primi raggi del sole primaverile con i miei gatti addosso, senza voler vedere nessuno per poi rinchiudermi nella mia stanzetta, accendere il giradischi, abbassare la puntina sui Suicidal Tendencies e…distruggere la stanza!
C’era quella sensazione positiva di potenza, nel senso del “poter fare, poter costruire” che mi drogava e che poi cercai di riversare nelle musiche e nei testi degli STIGMATHE come in “Italia Brucia” o “Lo sguardo dei Morti”.
Oggi la musica ha ancora un posto importante nella mia vita e mi inorgoglisce il fatto che mia figlia Giulia, di soli sei anni, ama molte delle cose che ascolto tra cui numerosi brani di allora: anche a lei offrono sensazioni inusuali e che non coincidono con quelle colonne sonore per gli acquisti che possiamo ascoltare mentre facciamo spesa in un Ipermercato.
Della nuova scena Punk non mi interesso troppo e, garantisco, non per snobismo o elogio della vecchiaia: è che purtroppo non riesco a ritrovare quelle sensazioni se non riascoltando le vecchie cose.
Non amo la scena EMO e i Green Day o NOFX mi ricordano cose che…mi ricordano altre passate e quindi, piuttosto di simpatiche copie, mi ascolto gli originali.
Ma a ognuno il suo e se a qualche neo Punk viene la pelle d’oca ad ascoltare i Tokyo Hotel o Avril Lavign va benissimo: peccato, però, perchè averei voluto che vedesse anche i miei mondi, dove la musica aveva ben altro significato.
Ma questa è un’altra storia…
Fabri
STIGMATHE
1983 1987