Il gruppo romano continua spedito sulla propria strada, fatta di tour e produzioni sempre più articolate e mature. In occasione dell’uscita di “Six years home” abbiamo scambiato quattro chiacchere con il principale artefice dei testi.
Bene partiamo col fare un breve resoconto su quanto fatto dagli Hopes Die Last dagli esordi a oggi.
Abbiamo cominciato come band pop-punk, registrando un EP di 8 brani. Non abbiamo suonato molto in giro per promuoverlo, infatti poco dopo decidemmo di cambiare genere e con l’entrata di Becko ci avvicinammo al suono di From First To Last, Saosin e Underoath. Registrando “Your face down now” abbiamo delineato poi il nostro nuovo corso.
Supportammo il disco con molti show – tra cui numerosi festival – e quella fu sicuramente un buon lavoro in fatto di promozione, nonostante si trattasse solo di un EP.
Al termine di questi tour ci siamo dedicati alla ricerca del nuovo screamer – Daniele – dato che quello precedente se ne era andato e successivamente alla stesura dei pezzi per l’album.
A inizio 2009 iniziarono le registrazioni dell’album, che andarono avanti per più di 3 mesi… ed eccoci qua.
Dal punto di vista live noto che spesso avete suonato in contesti lontani dal vostro standard (vedi hardcore/metal band)… Quanto pensate possa aiutarvi a livello di immagine e mediatica la scelta di suonare con questo tipo di realtà?
Non penso che i gruppi hardcore possano essere definiti lontani dal nostro standard e non ricordo tutte queste partecipazioni di metal band, se devo essere sincero.
Di quale fascia fate parte: DIY o Booking Agency per l’organizzazione di un concerto?
Noi siamo con la Avocado Booking che è un’ottima agenzia, lavorano molto bene e quando ti affidi a gente come loro è sicuramente meglio. Invece in altri casi è meglio fare da soli.
Pensate che la teoria del do it yourself sia ancora valida coi tempi che corrono in Italia?
Dipende dagli obiettivi che ci si pone. Da solo non puoi avere tutta la promozione necessaria, come organizzare tutti i concerti che vuoi.
Parliamo del nuovo album “Six years home”. Innanzitutto cosa vi ha spinto alla scelta di questo titolo?
La scelta è venuta abbastanza naturale una volta ultimati i testi, che ho scritto per il 90% io, quindi è stato abbastanza facile trovare 3 parole che racchiudessero un significato portante.
Quale è stata la prima impressione una volta finito l’album?
Siamo rimasti molto soddisfatti, il disco è uscito esattamente come lo volevamo e quando questo succede non si può che essere soddisfatti.
Come nasce un vostro brano?
Spesso per caso. Ci vengono in mente melodie o riff di chitarra dai quali si sviluppa una canzone in maniera abbastanza fluida e naturale. Quando si propongono cose nuove in sala prove, Ivan è subito prontissimo a metterci del suo alla batteria, che facilita il compito di molto, Becko arrangia il basso in poco tempo e il pezzo prende vita. Successivamente si aspetta che il testo sia finito per iniziare ad arrangiare le voci, spesso questo non accade mentre facciamo le prove ma a casa. Ci accorgiamo subito se il brano ha quella “scintilla” che lo può far entrare a far parte del nostro repertorio, non siamo una di quelle band che registra 50 pezzi per poi scartarne 45.
Musicalmente parlando, quali sono le differenze tra esso e “Your face down now”?
Il nuovo album è molto più complesso, articolato, lungo e impegnativo da suonare. Credo denoti una notevole crescita dal punto di vista musicale. Sicuramente non abbiamo dimenticato le melodie e i ritornelli catchy che hanno contraddistinto gli esordi e anzi, credo che qua abbiamo raggiunto il massimo anche sotto quel punto di vista.
Quali band hanno influenzato “Six years home”?
Molte. Bisogna ascoltarlo tutto e molte volte per capire che ci sono influenze di ogni tipo: dai classici Underoath e Saosin a Elisa, Massive Attack, Bloc Party e tanti altri. In sostanza tutto ciò che abbiamo ascoltato nel periodo di scrittura.
Di cosa trattano i testi? E come è nata la collaborazione con Brian dei Vanilla?
I testi trattano di mie sensazioni e stati d’animo ricorrenti negli ultimi 6 anni, leggendo il testo della title-track si può benissimo capire il messaggio dell’album. La collaborazione con Brian è nata ai tempi delle registrazioni di “Thanks for coming” e penso continuerà a lungo dato che siamo sempre molto soddisfatti del suo lavoro.
Quanto tempo avete impiegato per composizione e fase di produzione del disco?
Un anno e mezzo, inframezzato da tour vari.
Il nuovo disco ha le carte in regola per fare bene anche al di fuori dell’Italia. Verrà pubblicato anche in altri Stati?
Verrà pubblicato soprattutto in altri Stati! Verrà distribuito in tutto il mondo!
Pensi che il termine screamo si addica a un album come come il vostro? Te lo chiedo perchè ormai è di moda catalogare ogni nuova band sotto questo genere.
Non credo che si possa ancora definire screamo. Vedo più congeniale chiamarlo post-hardcore, anche se non credo ci sia un modo perfetto per catalogare il nostro prodotto.
Avete in cantiere un tour?
Ovvio, presto sarete aggiornati tramite la nostra pagina MySpace!
Il vostro show che vi rimarrà impresso negli anni?
Ce ne sono vari: il festival coi Bring Me The Horizon a Stoccolma è stato magnifico perchè abbiamo suonato davanti a molte persone, quello con gli Offspring è stato ovviamente fantastico. Ma ci sono concerti che abbiamo tenuto a Roma che a livello di emozioni sono stati i migliori!
Il gruppo che più vi ha impressionato dal vivo:
Di quelli con cui abbiamo diviso il palco senza dubbio gli A Breach On Heaven.
Il gruppo italiano al quale siete più legati:
A Breach On Heaven ed Helia.