GRINDERMAN

Nick Cave aveva inaugurato il sodalizio ristretto a quattro Bad Seeds dal 2005, girando per concerti con l’ambigua sigla ‘solo performance’; con questa formula l’avevamo ammirato a Modena, al Parco Novisad in quell’anno, con Warren Ellis che giganteggiava a mò di acido Paganini fuori di testa del nuovo millennio e con una sezione ritmica solida come la roccia ma estremamente pulsante, Martyn Casey al basso e Jim Sclavunos alla batteria.
Così rivisitavano con pathos essenziale e crudo classici vecchi e nuovi dei Bad Seeds; una bella sorpresa certo, ma nulla lasciava presagire che la rinnovata fame di verginità ed asciuttezza sonora dell’australiano l’avrebbe portato a concepire insieme ai suddetti musicisti nel 2006, nei Rak e Metropolis studios in Londra un lavoro così eclettico e brutalmente sonico come questo GRINDERMAN; tutt’altra cosa dei sontuosi ed affollati ensemble e degli arrangiamenti gospel del doppio Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus (2004).

Un primate goffo ed impaurito è il simbolo del nuovo progetto, mentre il nome è stato tratto da un verso di un blues di Memphis Slim, segnali inequivocabili dellanecessità iniziale di primitivismo espressivo emersa dall’affiatamento e dal costante gomito esistenziale ed artistico dei quattro in questi ultimi due anni.
Questa prerogativa è palpabile ed attuata sin dall’iniziale tribale Get It On, introdotta da un talkin’ ipocondriaco e blasfemo di Cave che subito non dà adito a compromessi ed equivoci.

E’ di sesso che i quattro stanno blaterando? Questa è la netta sensazione: quel che è certo è la furiosa chitarra cui Nick mette subito mano, sorretto da una ritmica incredibilmente ansiogena! Questa è la prima novità di Grinderman, prodotta dal combo ancora una volta con Nick Launay (dopo Abattoir Blues): Nick Cave sorprendente e feroce chitarrista, come confermato dalla seguente tesissima No Pussy Blues, un punk-blues esasperato culminante in una fiammata ossidrica altamente ustionante più che un guitar-solo, il simulacro di Ron Asheton evocato e disossato di qualsiasi fattezza armonica. Ed è ancora sesso disperato a motivare quello che è lìepisodio più selvaggio e stordente del disco; dopo due brani sono già chiare due cose: l’estrema lucidità della loro debordante aggressività nulla ha a che fare con l’informale caotico primitivismo dei Birthday Party, come più di qualcuno ha scritto, quanto è filtrata dall’enorme sensibilità artistica maturata da Cave &Bad Seeds negli ultimi 25 anni.
E poi non è il ‘solito’ grande ed ispirato Cave il vero protagonista di Grinderman, pur autore di tutte le liriche del disco ed artefice di performances vocali sporche e cattive di cui avevamo perso memoria: qui fa gioco di squadra ed a colpire al cuore sono i ‘suoni’ ! I suoni straniti delle chitarre e delle tastiere vintage di Cave ed Ellis (fendocaster, hohner guitaret, electric bouzouki) incatenate le une alle altre, in nettissimo primo piano e spesso filtrate, che danno vita ad un’abbacinante, cruda e moderna psichedelia, addirittura sperimentale come nella meditabonda ed ipnotica Electric Alice, dove il seducente impasto cromatico plasma un’inedito psycho-jazzismo.

I quattro rispondono solo ai canoni mutanti della loro creatività, ed ecco che si procede a sussulti : Grinderman fa il paio con il rifiuto seriale di stereotipi di Electric Alice ed è l’episodio più inquietante; un dark-blues catacombale dalle nette ascendenze velvetiane, inchiodato alla viola elettrica minimale di Warren Ellis. Lo spettro di John Cale si aggira per nulla furtivamente, siamo al cospetto di una Venus in furs del nuovo millennio mille volte più insidiosa, Cave predicatore diabolico a raccontarci di miserie ‘umane’, troppo umane.
Un’opera a sussulti dicevamo: si torna a scossoni palpitanti con Depth Charge Ethel, dal refrain contagioso e coretti power-pop e poi ancora riluttanti rapporti con l’altro sesso, attraverso la minimale Go Tell The Women (Cave sardonico crooner) e la classica (I Don’t Need You To) Set Me Free, sulla stessa linea ispirativa di abattoir blues, chitarre sinuosamente psichedeliche, quasi uno scampolo di Byrds/Beatles ’66-’67. Torna il Cave più lirico dell’esigua Man In The Moon, mentre la frenetica Honey Bee (Let’s Fly To Mars) ristabilisce il mood impetuoso che aveva marchiato i primi due brani. La martellante Love Bomb, con un riff di chitarra psycho-killer conclude perfidamente, dopo la sofferta e malsana When My Love Comes Down introdotta e striata da sonorità aliene, quella che si spera sia solo l’opera prima di Grinderman, motivati da seriale e cruda esigenza di sperimentazione e da carismatica ricerca interiore. Per ora Nick Cave tornerà ai suoi Bad Seeds al completo, l’ha detto lui !

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