“Boia Silvia, se vedessi dal vivo una cosa del genere potrei anche smettere di andare a vedere i concerti”: così esclamava un ignaro Matteo alla visione su youtube del live di Las Vegas dei Green Day di poche settimane fa (quello al Freemont Club del 19 ottobre). Effettivamente vedere il proprio gruppo preferito (oserei dire il gruppo della propria vita) in un contesto del genere, ovvero senza ore e ore di fila, senza pit, golden ticket, golden shower e tutto il resto, è sempre stato il mio sogno nel cassetto.
Quando è uscito “Dookie” avevo 6 anni, ne avevo 7 ai tempi dell’uscita di “Insomniac”, 9 ai tempi di “Nimrod.” e 12 a quelli dell’uscita di “Warning”: dal 2004 in poi i concerti dei Green Day sono sempre stati partecipati da folle oceaniche, code chilometriche e viaggi interminabili in pullman (provate a fare Firenze-Parigi in autobus). Il 5 novembre scorso comincia a materializzarsi la possibilità della realizzazione del sogno: i Green Day annunciano una data ai Magazzini Generali di Milano, club da poco meno di 1000 persone. Ovviamente la notizia fa il giro d’Italia (e non solo) e, all’apertura delle prevendite l’indomani mattina, non so come, Paolo riesce ad acquistare due ricercatissimi biglietti: siamo dentro (per citare il messaggio del mio amico recapitatomi in un’uggiosa mattinata di novembre).
Arriva la fatidica data e partiamo alla volta di Milano con la consapevolezza che avremmo assistito a qualcosa di speciale. E così è stato.
Non sto ad entrare nei dettagli della scaletta proposta dai Green Day, ci tengo solo a sottolineare che, per la prima volta in vita mia, ho assistito all’esecuzione di Chump, Stuart and the Ave., Warning, Homecoming e Whatshername (poco importa se è stata padellata per lo meno per la metà della sua durata: udite udite! Sbagliano anche i Green Day). Senza contare una Christie Road finalmente in versione integrale e non facente parte di un inutile medley e i tre pezzi nuovi The American Dream is Killing Me, Look Ma, No Brains! e 1981. Quasi due ore di concerto che hanno il loro epilogo con una versione acustica di Last Night on Earth e con l’immancabile Good Riddance (Time of Your Life): è proprio vero che il tempo vola quando vivi un momento magico che solo una serata del genere avrebbe potuto regalarci.
Non so di preciso chi devo ringraziare, anzi si, lo so: sicuramente Paolo per essere riuscito miracolosamente ad accaparrarsi i biglietti, altrettanto sicuramente Kappa e i Magazzini Generali per aver permesso tutto ciò, Simone per averci messo la pulce nell’orecchio e per non averci fatto trovare impreparati, ma in primis i Green Day, per essere stati e per essere la colonna sonora della mia vita, nei suoi momenti meno belli e in quelli bellissimi. Perché i Green Day, così come una fidanzata o il migliore amico, ci sono sempre stati e sempre ci saranno, nel bene e nel male. Poco importa se sono arrivato alle 4 del mattino e alle 7.30 è suonata la sveglia: quel suono non è mai stato così apprezzato, visto che, da lì in poi, ho potuto ricominciare a pensare a tutto quello a cui avevo assistito fino a poche ore prima.
Le polemiche e le gare a chi è più punk le lascio ad altri. Sto ancora godendo.