Se non conoscete i GANG questa è una ottima occasione per farlo e vi consiglio un accurato ascolto dai loro primi lavori sino alle produzioni su major ed oltre ancora.
Hanno lasciato da tempo la strada del controllo manageriale e sono tornati sulla strada anche se a dire il vero non l’hanno maI lasciata ed il fatto che gli sia costata e gli costano ancora tutte le vicende trascorse a causa del loro essere Banditi senza tempo, cani sciolti, fermi idealisti, convinti comunisti ma di un comunismo reale, fin troppo ideale e non solo per questi tempi duri.
Personalmente sara’ che ultimamente la vita mi sta sempre piu’ accostando ed avvicinando a gente vera.
Che scopro ogni giorno soprusi piu’ o meno evidenti, che vedo gente sempre piu’ collegata per un posto in tavola e non per una reale neccessita’ comune di creare per creare senza alcun fine o interesse…sara’ che nel PUNK (ma non in tutto il movimento) c’è ancora gente che crede che uniti si vince…sara’ perché sono stufo di chi usa un ideale e se ne fa scudo per celare la sua vera mira che alla fine è sempre la solita vecchia “Poltrona”…mi sento Bandito senza tempo anche io.
Intervistatore di eccellenza per questa chiacchierata con Sandro e Marino Severini è Stefano, ovviamente anche lui Un bandito senza tempo come tutti coloro che hanno nel cuore questa NOSTRA BAND che merita Appoggio e per i piu’ giovani, ai Punk, dico: Se amate i Clash non potrete non Amare i Gang…
Devil
Ci troviamo di fronte a una tavola imbandita e piena di ogni ben di dio. Massimo, il gestore (oltre che compagno) del Bed & Breakfast “Antico Borgo di Lusuolo”, sostiene che è per la colazione. Mah, personalmente penso che sia più un pranzo, però… bando alle ciance, sono qui per intervistare Marino e Sandro Severini, i Gang, che ieri sera hanno letteralmente incendiato il pub di Pontremoli “The Grapes”, regalando a tutti i fortunati emozioni indescrivibili. Cominciamo, tra una tazza di caffè ed una fetta di un dolce fatto dalla compagna di Massimo che è una delizia l’intervista, meglio la chiacchierata.
D: All’esordio la critica vi ha definito i Clash italiani, addirittura qualcuno si è spinto oltre e vi ha battezzato tout-court i nuovi Clash. Ad onor del vero voi non avete mai fatto mistero di esservi ispirati e di avere un gran debito di riconoscenza verso i CLASH, che sono stati sicuramente la più grande band di tutti i tempi. Ma, quanto vi è pesato questo, diciamo, ”fardello”?
Marino: Ma non ci è pesato per niente, dico la verità Stè, non ci è mai pesato. Anzi, all’inizio è stato anche un gran bel passaporto, che ci ha permesso di entrare in contatto subito, contatto ravvicinato, con tutta una razza in fuga in quegli anni lì, cioè, chi nei Clash aveva trovato la scintilla, quella che aveva fatto poi pian piano bruciare tutta la prateria. Per cui ti dico la verità, forse poi la stampa, la critica, ecc.ecc. aveva un po’ rotto i coglioni con questa storia dei Clash italiani, però all’inizio e ribadisco all’inizio, è stato veramente un gran bel passaporto.
D: Dopo i primi tre dischi in inglese, considerati dai soloni della critica musicale punk, post-punk, chiamateli come volete, perché ancora oggi c’è questa specie di “polizia” del punk, così come la chiamava JOE, che decide cosa è punk e cosa invece non è punk. Il punk, sostanzialmente è libertà di essere e di esprimersi nel miglior modo possibile. Chiusa questa parentesi polemica, dicevamo che con “Le radici e le ali”, arriva la svolta. Disco cantato in italiano, un po’ un ritorno alle origini, alle radici se preferite. Quali sono stati i motivi che vi hanno portato ad imprimere una svolta così repentina al vostro percorso artistico?
Marino: Ma, guarda, al di là dei guardiani dell’ortodossia punk, e di tutti gli stili, poiché questo avviene anche a distanza di tempo, io penso che come tutto il rock&roll, quella del punk sia stata una grande stagione epica. Laddove le rivolte c’erano, c’erano le storie, quindi il conflitto c’era e ci sono stati i grandi cantori, i “profeti” in particolare ed una spanna sopra tutto e tutti, Joe Strummer ed i Clash. Invece, in anni come quelli che stiamo vivendo c’è più stanchezza. Il conflitto non c’è, quindi manca il motore che fa muovere la cultura, l’arte in generale ed anche quindi la spinta del r&r viene a mancare. Quindi c’è un sentimento anche di nostalgia rispetto a quel tempo, rispetto alle grandi band, ai grandi progetti ecc. ecc. Il progetto de “le radici e le ali”, nasce, in se stesso, dopo parecchi anni che noi siamo in giro per l’Italia, quindi dopo incontri, scontri, confronti ecc. ecc. e pian piano nasce l’esigenza di ritrovare la propria identità per far sì che anche il r&r, o anche il punk-rock, anche quella stagione lì trovasse una organicità che secondo noi mancava rispetto a quegli anni, e che quindi potesse epicizzare, cantandole, le storie incontrate per strada. Quindi, inizialmente pian pianino, poi sempre più velocemente anche attraverso una serie di incontri privilegiati, come con Sandro Portelli, Max Stefani (Il mucchio), Liperi, Ambrogio Sparagna grande organettista e tanti altri. Dicevo, tutti questi incontri, ci fanno maturare l’idea di un progetto musicale che poi appunto troverà compimento con “Le radici e le ali”. Altra cosa né indifferente né secondaria, è che per la prima volta arrivano “i soldi”… Cioè, c’è un contratto con la CGD che ci permette di guardare al futuro, dal punto di vista discografico, in tempi medio-lunghi. Prima di ciò, era tutto estremamente precario e conseguentemente frammentario. Puoi ben comprendere che per noi era una situazione ideale, infatti “le radici e le ali” parte già con un progetto complessivo di tre dischi, che si evolve in seguito con “Storie d’Italia” e “Una volta per sempre”. Il cantare il ritorno, insomma. Dall’esilio al ritorno, infatti, non a caso il primo pezzo di “Le radici e le ali” è Esilio, e l’ultimo pezzo di “Una volta per sempre” è il Ritorno, solo che dall’inizio del viaggio sono passati 6 anni e tre dischi. Tutto un viaggio, una sorta di Odissea in musica, tutto un viaggio, un’odissea insomma il viaggio è sempre lo stesso.
D: Vuoi dire in pratica, che ritornate alle vostre radici, sostanzialmente è la riscoperta della musica italiana filtrata attraverso le esperienze…..
Marino (interrompe): Ti rispondo con una massima Zen, che Balducci-un prete- citava spesso. Lui diceva che quando uno è piccolo sa bene cosa sono le montagne, cos’è un fiume, cos’è l’acqua. Poi c’è un periodo, che è quello adolescenziale, dove uno perde la conoscenza rispetto a quello che è acqua, che è fiume, che è montagna. E lì entra in crisi, e c’è in più un atteggiamento di negazione, anche nei confronti di se stesso, della propria identità perché quell’orizzonte chiude tutto. Poi c’è la terza fase che è la saggezza, legata all’incontro, dove l’orizzonte, dapprima tutto chiuso, diventa invece un orizzonte che apre, cioè il limite e la soglia che sono in realtà lo stesso punto, fa sì che si possa aprire la porta ed andare oltre. Io penso che sia stato questo, soprattutto la prima parte del viaggio, cioè i tre dischi in inglese fortemente influenzati dai Clash, del percorso dei Gang. Sono stati la riscoperta che quell’orizzonte, rispetto ad un’identità ritrovata, permetteva, non la chiusura, ma bensì l’espansione al di là dell’orizzonte. E’ stata questa la scommessa che da parte nostra, e lo rivendichiamo con orgoglio, consideriamo vinta sotto tutti i punti di vista soprattutto, ed è quello che ci importa di più, sotto l’aspetto umano e personale.
D: Dopo questa, chiamiamola “trilogia”, si torna ad un disco di storie e che musicalmente suona più “cattivo”, diciamo…Un disco estremamente politico, non che gli altri non lo siano, anzi ma del rapporto tra i Gang e la politica parleremo dopo. “Fuori dal controllo”, dicevo, segna un confine netto, è uno stacco netto rispetto ai tre dischi che lo hanno preceduto, il ritorno a sonorità in parte Clash, poi prosegue con “Controverso” che ha un tiro molto Pearl Jam. Volete parlarmi di questi due “lavori”?
Marino: Ma gli ultimi 2 dischi sono proprio il ritorno a casa con una consapevolezza ritrovata nel garage di casa. Quindi una dimensione che è quella della band e da lì poi da lì parte, se non proprio compiutamente con “Fuori dal controllo”, sicuramente con “Controverso” l’idea di ritornare alla formazione, non dico del quartiere, del borgo o del paese, ma una dimensione che è quella del garage. Del gruppo che prova nel garage di casa, e da lì ricomincia raccontando le storie che trova e raccoglie in giro, con delle sonorità molto “elementari”, cioè 2 chitarre basso e batteria. Insomma la formazione classica. E’ come tornare un po’ alla Divina Commedia, all’Odissea, all’Iliade, cioè tornare ai classici, al Don Chichotte ecc. ecc, con tutta una serie di reminiscenze di vecchi amori. Che trovano anche lì attraverso vecchie e nuove storie nuovo vigore, nuova energia. Ed evidentemente trovano anche nuove aggregazioni, perché di fatto sono 2 dischi che ci permettono un contatto con generazioni nuove, anche con chi non conosceva neanche “le radici e le ali” o addirittura neanche i Clash del primo periodo, con chi non sapeva neanche chi fossero i fratelli Cervi, insomma nuove generazioni, nuove energie.
Riprendiamo la nostra chiacchierata all’Estragon a Bologna, nel backstage del “Joe Strummer tribute” fortemente voluto da Mauro Zaccuri e Fulvio Pinto. Naturalmente Marino e Sandro non potevano mancare.
D: Il vostro rapporto, intendo come Gang, con la politica. Voi che siete considerati il gruppo più politicizzato e “partigiano” del panorama musicale italiano…
Marino (interrompe): Ma guarda è molto semplice il discorso. L’anello di congiunzione tra noi ed il punkrock, quindi parliamo di un inizio, tra la scuola inglese, che non è r&r ma rock puro e semplice che è una cosa molto diversa. Il rock nasce in Inghilterra attorno agli anni ’60 e l’anello di congiunzione è Gramsci! Non perché lo diciamo noi, che siamo italiani, lo dicono loro, gli inglesi, che notoriamente hanno frequentato le High Schools. Sanno benissimo che tutta la sociologia legata alle nuove aggregazioni giovanili, nuove o vecchie che siano, cioè sono gli stili, la cultura della strada. I mods, gli skin, i punk ecc. i teddy boys, che precedono tutto il resto… è una cultura importantissima e c’è già in Gramsci, nei quaderni, ma soprattutto in un capitolo che è “americanismo e fordismo” la spiegazione a tutto questo.Quando la tradizione non offre più gli strumenti in termini di emancipazione, che fa? Semplice! Prende dei modelli che vengono da altre parti. Nel caso specifico, così come dell’Inghilterra ma anche dell’Italia, ecco allora gli anni ’50 con la grande rivoluzione del r&r che viene dagli usa. Il nostro rapporto con la grande epica del punkrock passa soprattutto attraverso il “profeta” più che Jhonny Rotten, Joe Strummer, naturalmente, è proprio questo: il fatto che il r&r apre le porte dell’occidente, cioè di una cultura esclusivamente occidentale, il punkrock, invece attraverso i Clash e quindi a Joe Strummer, le apre alla grande contaminazione derivante dall’incontro con altre culture. Questo è il grande miracolo del punkrock, e dei Clash in particolare, perché si riparte dalle storie del quartiere, da “white riot”, quindi dal confronto tra le minoranze giamaicane e inglesi e si riporta il tutto nel contesto del villaggio globale fino all’ultimo grande capolavoro che è “Combat rock”, non a caso ancora dei Clash. Penso che su questo ci vorranno 1000/20000 anni per apprendere la lezione però… insomma dei segnali comunque positivi rispetto a dopo “Sandinista” a dopo i grandi capolavori, anche a “London calling” il confronto con la cultura del r&r americano, penso che siano ancora materia di grande approfondimento e penso che quei dischi lì, intendo tutti quelli dei Clash, siano immortali. Perché senza dubbio non hanno cercato l’universalità, torno ancora una volta su un concetto di organicità gramsciana rispetto all’intellettuale, al delegato di fabbrica, al pittore, al musicista ecc. Io penso che quelle storie di quei dischi siano delle storie eterne e quindi non universali.Ed i Clash sono stati proprio per questo eterni fin dall’inizio, perché hanno raccontato la stessa identica storia, che però è vista dalla prospettiva più vera, che è quella della strada, dell’ultimo degli ultimi, della rivolta e del conflitto. Quindi fra 1000 anni noi potremo, se vorremo capire i tempi di oggi attraverso le canzoni. Da lì riuscire ad entrare e quindi capire la vera storia di fine anni ’90.
D: L’ultimo lavoro, il disco con “La Macina” – “Nel tempo e oltre, cantando” – riprende pezzi della tradizione popolare marchigiana e non solo, e li rilegge in chiave rock, mentre sono ripresi e riletti in chiave popolare alcuni pezzi, chiamiamoli cavalli di battaglia, dei Gang. Inoltre dal vivo fate anche altri pezzi che su disco non ci sono. Voi insistete molto, negli ultimi anni quasi ossessivamente, sul tema della memoria, sulla conservazione della memoria, sulla necessità di avere la percezione esatta di cosa sia la nostra storia attraverso la memoria. Volete dirmi il perché di questa insistenza?
Marino: Io penso che la memoria… la memoria prima di tutto è la ricchezza più profonda e più grande di un paese, di un’identità, ma non solo nazionale, identità legata anche al villaggio, al borgo, all’aggregazione umana più semplice. Io penso che senza memoria non ci sia la possibilità di conquistare, non forse conquistare non è la parola giusta perché è brutta, ecco diciamo di partecipare all’edificazione del futuro, senza memoria non c’è possibilità neanche di edificare la democrazia. In tempi in cui la memoria viene attaccata e sappiamo benissimo perché, … perché i vincitori tendono sempre a riscrivere la storia come gli fa più comodo. Invece, i vinti, non hanno tanto la storia, quella con la S maiuscola, quanto le storie, che è una cosa diversa, molto ma molto diversa. Portelli su questo concetto ci ha scritto centinaia e centinaia di pagine. La Storia è vista attraverso tante storie e conseguentemente ti dà una visione diversa della Storia, che è l’unico modo possibile di mantenere integra un’identità e passarla quindi alle generazioni future. In questo gioco tra Storia e storie, si innesta il teme della memoria. La memoria, e lo dico ormai da tanti e tanti anni, ma non lo dico solo io lo dice anche De Bernardinis in teatro, e tanti tanti altri attraverso le loro espressività artistiche. Dicevo, io non penso che la memoria stia nei musei, a casa dei professori di storia o dentro la “memoria” di qualche computer. Penso che la memoria sia sempre quel solito vaso dove si possono gettare tanti semi, che sono le sensazioni, i ricordi ma soprattutto le emozioni. Sottolineo emozioni perché questa è la profonda differenza tra il fare canzoni, scrivere libri, fare cinema e gli storici che insegnano all’università o alle scuole superiori, insomma quelli che per mestiere fanno i professori di storia. Senza emozioni non riuscirebbe a passare il messaggio della memoria e quindi non ci sarebbe un’altra “primavera” e quei semi resterebbero lì senza fiorire mai. Mentre invece, come dice anche Alcide Cervi, di qualsiasi pianta le foglie cadono, i rami si seccano, anche il tronco può essere attaccato dal fulmine, però il più importante, il seme, resta sempre. Il seme però, va annaffiato continuamente, ecco che l’emozione è l’acqua ed il concime che sono necessari a farlo rifiorire. Poi, io non so quali saranno i prossimi rami, come sarà la prossima stagione, le foglie come saranno, quanti e quali saranno i frutti che cresceranno, questi sono cazzi di quelli che verranno; però intanto il compito nostro che passiamo in tempi bui come quelli che stiamo vivendo, tempi di aridità e grande siccità, il nostro compito è di innaffiare questo seme.
D: Nei testi dei Gang, si incontra spesso la figura del bandito, ecco questo bandito potrebbe essere inteso come il fuorilegge, colui che si pone fuori dalle “regole costituite”, ma forse è un’altra l’immagine che voi volete dare utilizzando questa figura.
Marino: Innanzitutto è una figura romantica. Quindi c’è un grande affetto ed una grande emozione da parte di una cultura che rispetto alle istituzioni non si è mai fidata più di tanto. Perché le istituzioni, o comunque i governati, sono stati sempre, rispetto a determinate categorie sociali…, bastonatori, insomma le hanno sempre sfruttate. Io penso che, anche sotto questo punto di vista, il comunismo stesso storicamente non è che è stato molto gentile ed onesto nei confronti di chi ha versato il sangue o è stato massacrato, ma questo accade anche nella rivoluzione francese, anche l’illuminismo ed anche la borghesia, nel momento in cui non gli sono servite più queste grandi masse, questa carne da macello, sono state, per usare un eufemismo, abbandonate al loro destino. Quindi il bandito resta comunque, nonostante le contraddizioni intrinseche, una figura mitologica. Proprio perché la contraddizione esiste per forza di cose sempre e comunque nelle figure dei banditi, non sono delle figure innocenti e pure. Ma, perché vivono al confine tra il bene ed il male, sono costretti a farlo.Vivono in clandestinità laddove il bene ed il male rispetto alla superficie, non è mai una fotografia in bianco e nero, bella nitida e precisa. Nei loro stili di vita è possibile sentire il profumo di qualcosa di diverso, di altro..Sono quindi delle figure che vanno tenute in vita, riaggiornandole, come ad esempio nel caso nostro la scommessa di far sì che il bandito Trovarelli, che è veramente esistito agli inizi dell’800, e che per inciso era sostanzialmente un disertore, poi oggi come oggi diventa l’ultimo della fila all’ufficio collocamento, un disgraziato qualsiasi che è stato deluso anche dal 25 aprile, dalla resistenza, dai grandi accadimenti degli anni ’60 e ’70, e che si trova forse un po’ solo e che magari è “consolato” da qualche canzone, dal r&r, dal mondo del rock. Cioè, una figura un po’ profetica che annuncia, pur essendo l’ultimo degli ultimi, qualcosa di diverso: Io ci credo molto al fatto che gli ultimi saranno i primi, anche perché gli ultimi sono, per forza di cose, già adesso i primi perché qualcosa, di fatto che può cambiare puoi solo sperare di trovarlo laddove c’è l’ultimo, quello che non ha più niente da perdere.
D: Alla categoria dei banditi, così romanticamente intesa, ascriviamo anche il sub-comandante Marcos?
Marino: Senza dubbio! Però, attenzione, la figura di Marcos sotto l’aspetto storico. A noi ha sempre più interessato ed affascinato per la grande capacità di comunicare con tutto il mondo e non solo con gli ultimi. Marcos è il primo che profetizza un tipo di rivoluzione dove non c’è niente da conquistare, casomai da recuperare, recuperare la terra com’era prima, un paradiso che c’era già prima. Per lui non c’è bisogno di cambiare, ma semplicemente di riscoprire le regole principali. C’è, al di là di tutto, nelle sue forme comunicative un forte senso di sacralità, cioè riesce a toccare il punto dove tutti siamo una cosa sola. Siamo la razza umana, ma siamo anche tutto un pianeta, tutto un universo. Io ho sempre trovato questo concetto anche nelle storie del vecchio Antonio, nelle sue dichiarazioni contro i potenti del mondo. Questo gli viene, per forza di cose, da una cultura india, indigena. Lui va a scuola dagli indios per anni prima di diventare il sub-comandante e credo che sia uno dei più grandi allievi del grande patrimonio dei miti, cioè di coloro che erediteranno la terra, il sud america. Noi siamo sempre stati affascinati da quella cultura, ancor prima di Che Guevara, del Brasile di Chico Mendes. Là io ho sempre trovato un forte senso di rapporto intimo tra l’uomo e l’universo. Questo secondo me, è il nodo cruciale che impedisce l’apertura delle porte dell’apocalisse, cioè finché c’è quella dimensione lì, ebbene quella ci preserva dall’apocalisse. Dopodichè, l’apocalisse è in atto in occidente ormai da tanti anni, io penso che ogni soluzione proposta per un qualsiasi problema è sempre e comunque una: la guerra! L’un contro l’altro fin dal mattino quando ti svegli e ti butti in mezzo al traffico, oppure quando sei in fabbrica o in ufficio: Penso che la guerra, rispetto al mondo, sia la conseguenza dell’orrore che noi viviamo quotidianamente e del quale non ci accorgiamo più di tanto, ormai siamo per così dire assuefatti. Quindi non ho grandi speranze all’interno dell’occidente per l’umanesimo, almeno così come viene rappresentato in Europa e negli Stati Uniti. O molta speranza invece nei miti della terra rispetto ad altri popoli che si uniscono da secoli all’orrore dell’occidente.
D. Torniamo per un attimo a “le radici e le ali”. Quando è arrivato il contratto, o come dite voi “i soldi”, è stata una garanzia, una sicurezza. Oggi invece, voi – all’unisono i due fratelli Severini: “nun c’avemo ‘na lira” – vi autogestite. Questa situazione può crearvi delle difficoltà nel programmare un’attività discografica che abbia delle cadenze, dei tempi; ad esempio il vostro ultimo disco risale ormai al 2000, insomma tutti aspettiamo ‘sto disco nuovo, ma mi sa…
Marino: C’è un fatto… come dire, una serie di concause rispetto al ritardo del nuovo disco, che è dovuto anche alla mancanza di un rapporto contrattuale, “di lavoro” a tempi lunghi. Però non è una questione di cattiva volontà nostra o delle case discografiche. Il mondo della produzione dell’arte in generale è molto cambiato. Da quando noi siamo arrivati – era il 1989 – nel nostro caso alla CGD, c’era l’azienda con le sue regole ed un sistema di produzione all’interno di un catalogo. L’etichetta aveva il jazz, la musica leggera che era la parte preponderante, il folk, il rock ecc. ecc. Insomma una serie di collane, così come in una casa editrice. Oggi invece ci stanno le multinazionali. Quando noi siamo arrivati alla WEA abbiamo trovato un modo di produrre i “prodotti culturali”, quindi anche i dischi, che segue regole completamente diverse rispetto a quelle cui noi eravamo abituati. All’interno di una multinazionale, al di là delle posizioni ideologiche, è praticamente impossibile instaurare delle relazioni, dei rapporti. Di conseguenza sarebbe assurdo se noi presentassimo oggi in WEA un progetto di 3 dischi nell’arco di 5/6 anni, ci riderebbero in faccia! Ci direbbero che un simile progetto non ha alcun senso, e se proprio lo vuoi fare vallo a fare da un’altra parte. Ad esempio, per spiegarmi meglio, i fratelli Citti a Roma qualche sera fa ci hanno detto: “… una volta c’era il cinema, oggi si fanno i film…” Allora io posso benissimo dire che una volta c’era la musica, anzi, c’erano le canzoni, oggi ci sono e si fanno solo i singoli, i prodotti. In un mondo in cui si producono solo singoli, noi che abbiamo una cultura legata al disco, alla canzone, per noi non ha più senso bussare a quelle porte o tentare di instaurare con loro un rapporto che è basata solo sul singolo e quindi sull’accumulo veloce di denaro:Non ci appartiene! Non è cattiva volontà, è un dato strutturale, economico, ideologico, preciso e non c’è cattiva volontà neanche da parte loro, diciamo che è così e basta! Le regole del mercato sono queste punto e basta, è un dato di fatto. Tu dici 4 anni, è vero, ma non è solo colpa nostra è anche che molte canzoni negli ultimi tempi son tornate a vivere con una nuova energia, perché hanno trovato casa perché finalmente sono cantate laddove quelle storie sono ancora vive, sono vere, attuali. Proprio quando noi pensavamo che avessero fatto il loro tempo, ecco che ci ritroviamo con canzoni che noi abbiamo inciso anche più di 10 anni fa, che rinascono a nuova vita, tornano prepotentemente attuali.Naturalmente questa ha contribuito, insieme a tutto quello che abbiamo detto prima, a rallentare il lavoro per il nuovo disco..
Sandro: Ti dico io una cosa, Stè. Perché andando in giro in questi anni alla media di 90/100 date l’anno tutti mi chiedono: …quand’è che fate un disco nuovo..”, tu per primo. Però, cerca di vedere la cosa anche dal nostro punto di vista, non soltanto dal tuo o degli altri che vengono a sentire i nostri concerti. Certo, il vostro è affetto, anzi direi amore, considera però che noi in questi 4 anni abbiamo fatto un casino di cose. Marino avrà cantato con non so quanti gruppi, penso –Marino: 25/26- Sandro continua: con chiunque ci ha telefonato chiedendoci una collaborazione, certe volte addirittura senza sentire il pezzo che dovevamo fare, solo ed esclusivamente sulla base di un rapporto di amicizia, di stima, di fiducia, di rispetto. Anche perché, quando noi abbiamo cominciato, abbiamo chiamato un sassofonista delle parti nostre, Urbani si chiama, uno che ha suonato con gli Agorà, un gruppo che ha partecipato più volte al jazz festival di Montreaux, per noi, per le band della zona era quasi un mito. Pensa che quando siamo andati a casa sua, non è che ha voluto sentire il pezzo, assolutamente.. ci ha invitato a cena e senza aggiungere altro ha detto semplicemente:”.. O.K. possiamo andare, prendo il sax e andiamo in studio…”che non so da quant’era che non lo suonava: Per dire che noi, per un sacco di tempo legati ad una casa discografica per collaborare con qualcuno dovevamo fare un casino che non ti dico. E dovevi chiedere il permesso, l’autorizzazione ed inoltre gli dovevi far sentire il pezzo, magari poi rompevano i coglioni perché, secondo loro, non era “in linea” con la nostra produzione ecc.ecc. Invece in questi 4 anni di vacanza, di libertà abbiamo suonato con tutti coloro i quali ci interessava suonare, soprattutto con tutti quelli che ci piacevano come persone, indipendentemente dallo stile musicale.
Marino: C’è un’altra cosa da dire. Quando noi avevamo un rapporto con un’agenzia, facevamo una media di 20/30 date l’anno, oggi facciamo 90/100 anche 110 date l’anno! Possiamo scegliere di andare a suonare anche dove ci troviamo con 10 persone. A terni, per esempio, ci siamo trovati in 8, dentro uno sgabuzzino dietro una libreria, e ti garantisco che è stato bellissimo! Cioè è la riscoperta di una dimensione diversa, non solo nostra, dal punto di vista umano, ma anche le canzoni che trovano un vigore nuovo, un vigore che per anni non hanno mai avuto. Anche se le suonavamo. Ad esempio, come gruppo spalla di Ligabue. Le canzoni, le nostre canzoni, io e Sandro per tanti anni le abbiamo portate e suonate in situazioni… imbarazzanti, non solo per noi che abbiamo la faccia come il culo e andiamo dovunque, d’altra parte veniamo dall’Imbrecciata, ma secondo noi, erano le canzoni che si trovavano in imbarazzo in certe situazioni. Tornando al concetto di prima, sono canzoni eterne e non universali. Non possono essere cantate da tutti e dovunque, vanno cantate anche in uno sgabuzzino di una libreria di Terni da 8 persone, e lì sicuramente trovano casa. Ma davanti a 20.000 persone in contesti sbagliati si vergognano, si trovano in imbarazzo… al contrario nostro che ce ne freghiamo, basta che vicino c’è un posto dove si mangia r si beve bene…
Sandro: Tieni presente inoltre che in questi anni abbiamo fatto uno spettacolo teatrale su Fausto e Iaio, il disco con La Macina, ora abbiamo ‘sto spettacolo con gli Yo Yo Mundi, e sicuramente qualche cosa mi sfugge. Non è che i Gang sono degli stilisti tipo, che so, Armani che ogni stagione deve lanciare una nuova linea di moda. Non l’abbiamo mai fatto, neanche quando avevamo il contratto con una casa discografica, cioè quando ci davano anche dei soldi in anticipo. Noi abbiamo sempre fatto dischi ogni 2/3 anni senza mai rispettare tempi, per così dire, imposti. Credo proprio che faremo un disco quando avremo delle canzoni che, secondo noi, vale la pena incidere.
D: Credo che quello che hai appena detto sia veramente il massimo della libertà…
Marino: Scusa, apro una parentesi. Io capisco il rinnovo del guardaroba, c’è mio nipote che è piccolino, che mi dice sempre:” … ma tu, zio, ‘sta camicia, quando la cambi?” Ma, vedi Stè, è una camicia che mi piace tantissimo, avrà 10 anni forse più, e l’avrò pagata sì e no 14.000 lire, ed ancora la metto! Capito? Voglio dire, come sostiene Robert Plant (Led Zeppelin), la canzone quando è quella, quando è bella, resta lì, appunto in eterno! Tu cambi guardaroba ma lei è sempre la stessa. E’ come se tu che leggi 100 libri l’anno, poi alla fin fine, con il tempo, ti accorgi che solo 2/9 massimo 4 sono quelli importanti e che tutto ciò che leggi è già stato scritto. Voglio dire, a 50 anni quasi, noi le canzoni le abbiamo fatte, ne faremo altre, anzi nel cassetto ne abbiamo tante già pronte comunque ci siamo capiti, continueremo a cantare le “storie”.
D: Capisco.Ma tutte le collaborazioni di questi ultimi anni non sarebbero potute avvenire se aveste avuto un rapporto contrattualizzato con qualche casa discografica, perché il mercato non accetta di non controllare qualcosa, né tanto meno la creatività (Linea dixit!). Però, questo vi ha permesso anche di iniziare un progetto che, se pure tra alti e bassi, va avanti. Sto parlando dell’Unione delle Tribù. Volete spiegare di che si tratta?
Marino: Noi non abbiamo fatto altro che mettere in moto delle energie! Quando tu vai in giro incontri delle persone, incontri delle situazioni e non è che dici c’è da fare questo o quello, tu pensi che quelle belle persone devono incontrarsi, devono relazionarsi; insomma abbiamo fatto un po’ i ruffiani cercando di farle incontrare. Noi questa cosa, un po’ per nostra forma mentis, l’abbiamo sempre avuta, ma l’abbiamo imparata dai grandi maestri che hanno fatto la storia della musica anche in Italia. Un esempio è Gianni Sassi, quello che ha inventato la Cramps e la grande musica italiana degli anni ’70. Lui non ha fatto altro che far incontrare le persone: Non ha mai detto a Demetrio (Stratos, Area), devi sentire questo, devi fare quello oppure devi suonare con Tizio o Caio.
Lui diceva:” Io vado in Inghilterra o negli USA per qualche giorno, vuoi venire con me? Ti presento Tizio o Caio ecc. ecc.” Lui si innamorava, se anche Demetrio poi si interessava ai canti indiani e andava a prendere lezioni di lingua navajo, lui aveva esaurito il suo compito. Lui scommetteva sulle persone, perché intuiva che c’era del talento, e non faceva altro che creare l’opportunità di incontro, di relazione. Credo che per noi sia più o meno la stessa cosa, anche se spostata su un livello diverso. Per noi, come Gang, i 20 e più anni spesi in giro per l’Italia, sono stati importanti per conoscere tante persone. Persone che fanno, che non fanno, che rompono i coglioni che sono grandi, gruppi che suonano, ma anche persone che non suonano, l’importante per noi è farli incontrare. Questo vale per chi suona, ma vale anche per te per esempio, perché da quando ci conosci quanti “disgraziati” Hai conosciuto? Una marea. Allora, vedi, se tu fossi stato uno che suonava sarebbe stato naturale avere un feeling e collaborare con te, oppure quando hai una data che tu non puoi fare cercare di passarla a te. E’ una specie di cordata spontanea. Poi se la vogliamo fare diventare una cosa organizzata, sono cazzi di altri e non nostri, non è il nostro ruolo. Vedi è come far diventare un movimento partito. Lo facciano altri, io non ci sto. O meglio, ditemi quello che devo fare, perché io e Sandro sappiamo fare canzoni, non sappiamo fare partiti, né etichette né agenzie. Perché non siamo adatti, perché ci conosciamo e sappiamo che no è cosa nostra e quindi rischieremmo di rovinare tutto.
D: Banalizzando il concetto: voi non fate altro che mettere in rete tutti gli “ultimi”, i ribelli, coloro che non si arrendono e che ancora conservano intatto l’entusiasmo e la voglia di cambiare.
Marino: Quello che noi cerchiamo di fare è, ripeto, mettere in contatto le persone, anzi, le “belle persone” e quindi le loro storie, in modo tale che, oltre a sentirsi meno sole, trovino il modo di provare a diventare “storia. Vedo ad esempio persone che ritrovano entusiasmo e voglia di fare dopo tanto tempo, certo può essere poca cosa, ma intanto è un punto di partenza:
D: Tra poco inizia la serata dedicata a Joe, quindi vi chiedo: come vogliamo chiudere questa chiacchierata?
Marino: Che ti devo dire, stasera siamo qua, sembra che voglia nevicare, tra un po’ arriva natale, siamo tornati all’Estragon e come al solito mai una bottiglia di vino, sempre ‘sta cazzo di birra, io ti dico…vorrei che il punk rock in Italia riscoprisse il vino e la finisse con questa cazzo di birra. E ora andiamo a dedicare un paio di pezzi al più grande di tutti…