Certo non trascurano i particolari, questi Arturo: un cd confezionato, nel vero senso della parola, con tanto di nastro adesivo laterale con disegnino pseudo-giapponesi, una grafica molto curataanche all’interno del booklet, con pubblicazione di testi in italiano e relativa traduzione in inglese a fronte. Ma quello che importa poi è la musica: e la musica degli Arturo va velocissima, così veloce che è pure difficile stargli dietro, e in men che non si dica si è già alla decima canzone senza che ce ne si è accorti, e quando si arriva al diciassettesimo pezzo, e ne manca uno, il disco è quasi finito è ed è passata solo una mezz’oretta (il che vuol dire poco più di un minuto e mezzo per brano). Una mezz’oretta che, comunque, non è per niente stata spesa male, perché gli Arturo hanno un suono bello compatto e il loro dischetto fila via come un treno, con dei testi veramente belli (hanno fatto bene a pubblicarli), parti vocali convincenti e, qualche idea niente male che andrebbe approfondita: ogni tanto fa capolino un campionamento, ogni tanto una drum machine, che sembrano però comparire per caso, quasi come ornamento. A parte LaMI&RE, non per niente il pezzo migliore della prima parte dell’album. Come bellissimo è il diciottesimo e ultimo brano, uno strumentale di sei minuti il cui peso specifico costituisce da solo la seconda metà dell’album, feat. Quintopiano, ovvero la quiete dopo la tempesta, dove un lento incedere elettrico si mescola con l’elettronico e sembra quasi di essere in un disco dei Death In Vegas. E alla luce di questi risultati, si evince che si poteva osare di più, anche per differenziarsi dai miliardi di gruppi hardcore che popolano la penisola. Ma lasciando da parte quello che potrebbero fare, va detto che quello che fanno gli Arturo lo fanno bene. E per il momento basta.
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